Nel 2010 aveva inizio la seconda fase della crisi economica, che travolse l’Italia con una violenza senza precedenti. Da allora, se esiste un tema all’ordine del giorno dell’agenda dei media italiani è stato quello dell’aumento delle diseguaglianze e della povertà, assoluta e relativa. Meno risalto è stato dato, dagli stessi, all’analisi della sua distribuzione, elemento di cruciale importanza per delineare strategie di contrasto.
Povertà assoluta e Povertà relativa
Partiamo, però, dalle basi necessarie per interpretare i dati. Cosa sono povertà assoluta e povertà relativa? Si trova in condizioni di povertà assoluta il nucleo famigliare la cui spesa mensile è inferiore a quella utile a soddisfare una serie di necessità primarie fondamentali al mantenimento di una condizione di vita accettabile. La povertà relativa, invece, prende in considerazione solamente i consumi mensili delle famiglie, paragonandola alla media nazionale. Nel 2017, la soglia di povertà relativa era fissata a 1.085,22 euro mensili per un nucleo di due persone (per diverse composizioni, si applicano dei coefficienti).
Una situazione in peggioramento
Il trend di entrambi questi indicatori, sin dal 2011, è stato purtroppo quello di un incremento. Fa eccezione il 2014, anno, forse non a caso, durante il quale si è assistito ad una congiuntura economica globale estremamente favorevole. Se nel 2011 le persone in uno stato di povertà relativa erano 8,173 milioni, e il fenomeno riguardava il 9,9% delle famiglie, nel 2017 i soggetti interessati sono 9,368 milioni, le famiglie ben il 12,3%. Addirittura peggiore il trend della povertà assoluta, passata dall’affliggere 3,415 milioni di cittadini e il 5,2% di famiglie, a riguardare 5 milioni e 58 mila individui e il 6,9% delle famiglie.
Famiglie con figli e under 35 i più colpiti
Andiamo ora a osservare come la povertà colpisce le diverse fasce d’età. Appare evidente quello che può essere definito come un dramma sociale per il futuro del Paese. I più colpiti sono infatti gli under 18: un minore su cinque vive infatti in un nucleo famigliare in povertà relativa (21,5%) e più di uno su dieci (12,10%) in uno stato di povertà assoluta, sebbene nel corso del 2017 si sia registrato un leggero miglioramento (-0,8% e -0,4%). Subito dietro, ma con un trend in costante peggioramento, la fascia tra i 18 e i 35 anni (19% e 10,40%).
Gli under 35 non riescono ad essere indipendenti
La prima conseguenza si collega al tema dell’indipendenza abitativa dei giovani. La media europea di under 35 che vivono con almeno un genitore è del 48,1%; in Italia del 62.6% (dal 58,8% del 2010). In particolare, se si nota un leggero calo nei centri delle aree metropolitane, preoccupa la situazione nelle periferie: dal 55,5% al 66,2%.
Vi sono certamente diversi fattori che influenzano questo dato (il tasso di disoccupazione giovanile e il livello salariale ne sono un esempio), ma è inevitabile affermare come l’aumento di situazioni quantomeno di disagio economico ne sia la causa ultima. I giovani italiani vivono oggi una situazione di profonda difficoltà: non poter raggiungere l’indipendenza abitativa, infatti, non è in molti casi una comodità. Oltre che incidere negativamente sulla fiducia nel futuro e sui livelli di stress (anche dei genitori) – elementi da non considerare ininfluenti per l’economia -, è una situazione che ritarda le possibilità di creare una propria famiglia.
Famiglie con minori: è emergenza
La situazione è profondamente negativa anche per le coppie italiane, qualora decidessero di avere figli. Il 9,5% dei nuclei famigliari con un figlio minore è in una situazione di povertà assoluta, ben il 17% in povertà relativa. Una situazione che è peggiorata drasticamente negli anni della crisi: nel 2011 le percentuali erano rispettivamente del 3,7% e del 10,6%. Numeri che aumentano solo in modo contenuto se i figli minori sono due, mentre in presenza di tre minori una famiglia su cinque è in condizione di povertà assoluta, quasi una su tre di povertà relativa. In particolare, si osserva come sia esponenzialmente aumentata, tra il 2015 e il 2017, la correlazione tra una situazione di povertà assoluta o relativa e la presenza di un minore nel nucleo famigliare.
Potremmo riassumere quanto scritto sino ad ora con una semplice frase: le famiglie italiane fanno sempre meno figli e, soprattutto, riescono con sempre maggiore difficoltà a sostenere il costo economico che l’impegno genitoriale comporta.
Pochi investimenti
Questo quadro ci obbliga ad effettuare un’ulteriore considerazione. Negli ultimi anni vi sono state due parole spesso ricorrenti del dibattito politico: natalità e famiglie. In particolare, si è spesso parlato di incrementare i sostegni economici alle famiglie con figli a carico – ad esempio, attraverso un riordino degli sgravi fiscali e l’adozione di un quoziente familiare alla francese. Considerando l’ammontare di risorse dedicate a tali argomenti nelle ultime legislature e quella che sembra essere la poca attenzione nella prossima legge di stabilità, possiamo affermare che gli sforzi siano stati, sin qui, molto limitati. Il reddito di cittadinanza (molto dipenderà da come sarà implementato) potrebbe comunque incidere positivamente.
Il centro studi Impresa e Lavoro conferma quanto appena affermato. Secondo una ricerca basata sui dati Eurostat (dati 2015), la spesa pubblica per famiglie e bambini, nel nostro Paese, si ferma all’1,5% del Pil, collocando l’Italia al 17° posto tra i 28 Paesi Europei, con un -0,2% rispetto alla media dell’Unione. Ben un punto di pil in meno della Francia. Una situazione che, come mostra il grafico sottostante, migliora solo leggermente considerando invece la spesa pro capite.
Una possibile spiegazione
Si potrebbero trovare diverse ragioni per spiegare i motivi di quanto appena scritto. Certamente la struttura demografica incide in modo non indifferente nella gestione della spesa pubblica: l’Italia è un Paese “vecchio”. Questo può aver indirizzato le scelte politiche delle maggioranze nella ricerca prioritaria del consenso delle fasce di età più elevata (sopra ai 65 anni), che rappresentano la maggior parte del corpo elettorale. In ogni caso, considerando il crollo della natalità e le sue conseguenze sulla sostenibilità economica italiana nel medio e lungo periodo (a partire dal capitolo pensionistico), questa tendenza rischia di provocare una strutturale incapacità di risolvere un’emergenza che si aggrava ogni anno.
In particolare, è interessante notare un altro dato. Nel grafico sottostante si registra l’andamento del reddito medio famigliare equivalente per classi di età dal 2006. Come possiamo vedere, il problema riguardante gli under 30 (e gli under 50) si registrava sin dagli anni precedenti l’inizio della crisi. Al contrario, la fascia tra i 51 e 65 anni è rimasta più o meno stabile, segnando una flessione significativa dal 2010, ma arretrando “solamente” sino ai livelli del 2006; gli over 65, invece, hanno registrato addirittura aumenti anche in riferimento agli anni pre-crisi (la cosa non deve stupirci, considerando come la maggior parte del reddito di questa fascia derivi da proventi pensionistici).
Titolo di studio, arma contro la povertà (ma l’Italia è indietro)
Prendendo in considerazione i dati sull’incidenza della povertà famigliare per titolo di studio della persona di riferimento, è evidente un rapporto diretto tra la formazione e le situazioni economiche. All’aumentare del livello d’istruzione del capofamiglia diminuisce infatti drasticamente la possibilità che il nucleo famigliare possa trovarsi in una situazione di povertà.
L’istruzione, dunque, può essere una delle principali armi contro l’avanzare dei fenomeni di esclusione economica. Anche in questo caso, però, l‘Italia presenta preoccupanti livelli di investimento. La spesa percentuale sul pil indirizzata all’istruzione è passata dal 4,4% del 2008 al 3,9% del 2017 (dati Eurostat), contro una media europea del 4.7%. Il Paese è tra gli ultimi posti in Europa, davanti solo alla Slovacchia (3,8%), alla Romania (3,7%), alla Bulgaria (3,4%) e all’Irlanda (3,3%).
L’emergenza Sud (che peggiora)
Un rapido sguardo, infine, all’incidenza della povertà relativa su base regionale. Il quadro è quello di un Paese diviso in due: povertà relativamente contenuta a nord (ma in peggioramento), e gradualmente più alta al centro sud e al sud. Peggiorano soprattutto la Calabria (dal 20,5% del 2014 al 35,3% del 2017), la Sicilia (dal 25,2% al 29%) e l’Umbria (dall’8% al 12,6%). Tra il 2014 e il 2017 gli indicatori hanno subito dei forti aumenti praticamente in tutte le regioni, ad eccezione della Valle d’Aosta, del Friuli-Venezia Giulia, delle Marche e della Basilicata. Particolarmente, quest’ultima, è passata da uno sconfortante 25,5% ad un sempre importante, ma più contenuto, 21,8%.
Buonasera
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