In precedenza vi avevamo già parlato del rapporto IFEL-Anci. In quella occasione, abbiamo approfondito il complesso sistema di differenze che insistono tra i vari comuni italiani. Oggi vogliamo soffermarci su aspetti come l’economia territoriale e lo stato di salute delle imprese nei vari contesti regionali.
Nascita e morte delle imprese
Osservare la variazione nel numero delle imprese nelle varie regioni italiane può essere un utile indicatore ma – questo va specificato – non va interpretato come un dato in grado di descrivere da solo, in positivo o in negativo, lo stato di salute economica delle varie aree. Vi possono essere infatti numerosi motivi alla base della nascita o della morte delle aziende. Ad esempio, la crescita esponenziale di alcune imprese su base regionale, in un determinato settore, potrebbe obbligarne altre, meno efficienti, alla chiusura. Fatta questa premessa, incrociando i dati delle camere di commercio italiane, otteniamo una mappa da cui si evince chiaramente come il tasso di incremento delle imprese risulti statico o addirittura negativo nelle aree dal Centro e del Nord. Al contrario di quanto si potrebbe generalmente pensare, dal Lazio alla Sicilia il quadro è di segno opposto.
Imprese: diminuiscono nel Nord Italia, aumentano nel Mezzogiorno
Delle 20 regioni prese in considerazione, ben 10 vedono un segno negativo alla voce “variazione numero delle imprese”, mentre il 25% riporta un incremento solo minimo, pari o inferiore allo 0,5%. Le restanti 5 regioni fanno segnare un dato positivo, tra l’1% e l’1,8 %. Nello specifico, la regione con il peggior risultato è la Valle d’Aosta che, a fronte di un tasso di natalità delle imprese del 6,3%, riporta una mortalità pari al 9,6 %. All’estremo opposto dello stivale la situazione si capovolge. La regione con il miglior risultato in Italia, è infatti la Sicilia: a fronte di un tasso di natalità del 7,7%, la mortalità si attesta sul 5,9%, per un saldo positivo dell’1,8%.
La specializzazione economica dei comuni italiani
Dal grafico sottostante possiamo osservare come il settore di specializzazione prevalente nella maggioranza dei comuni italiani, specialmente nel Mezzogiorno, sia quello primario. Questa prevalenza è più forte in Basilicata, dove il 93% dei comuni è specializzato nel settore, con Umbria, Sardegna e Molise a seguire. Molto inferiore è invece la percentuale dei comuni lombardi (29,0%). Per contro, se si considera il settore secondario (industria tessile, metalmeccanica, alimentari, chimiche ecc.) è proprio in Lombardia che troviamo il maggior numero di comuni specializzati (62,6%) in questo settore produttivo. Toscana e Veneto seguono molto staccate (39,9% e 39,5% rispettivamente dei comuni), mentre Basilicata, (4,6%), Sardegna (5%) e Umbria (6,5%) sono le regioni con la minor presenza di comuni “dediti” al settore secondario.
Specializzazione economica dei comuni italiani, per regione (2017)
Anche il terziario vede una forte spaccatura tra le varie realtà territoriali. Le regioni con un’incidenza maggiore sono nel sud, con il 23,5% di comuni della Campania specializzati nei servizi, il 15,6 % e il 15,1% in Calabria e Sicilia. La percentuale molto bassa del Piemonte (4,9%), può spiegarsi con l’altissimo numero di comuni (oltre mille, di cui la gran parte molto piccoli e meno “services oriented” rispetto ai comuni maggiori) presenti nella regione.
La crescita del PIL: Mezzogiorno in ripresa, ma non abbastanza
Per comprendere al meglio le spaccature economiche dal quale il nostro Paese è afflitto, è necessario analizzare anche le variazioni di reddito nelle singole regioni. La crescita italiana, anche nel 2017, è lenta rispetto a quella europea: un modesto +1,5%. In particolare, osservando i dati per macroregione, emerge prepotente quella che è una costante: il Nord-Ovest è l’area che cresce di più, toccando picchi del 2% (comunque inferiori di uno 0,5% rispetto al dato dell’Eurozona), ma tale valore diminuisce nel Nord-Est (+1,5%). Il Centro registra il dato peggiore (+1%), mentre al Sud la crescita media è dell’1,5%: un dato che in parte conferma un’accelerazione del Mezzogiorno. Si tratta, però, di un valore ancora largamente insufficiente, in particolar modo se consideriamo il diverso impatto della crisi economica sulle regioni italiane: tra il 2008 e il 2017 il gap tra Centro-Nord e Sud è andato ampliandosi rispetto alla situazione pre-crisi, in particolar modo nelle isole.
La variazione del PIL nelle Regioni italiane
Il premio per la crescita appartiene alla Valle d’Aosta (+2,6%), sebbene sia una le realtà che meno pesa, in termini assoluti, sul quadro nazionale e abbia stentato parecchio negli anni della crisi. Per Il Trentino-Alto Adige, la situazione è diversa: in questo caso si conferma una delle regioni più in salute del nostro Paese, unica, anche negli anni in cui più forte era la recessione, ad avere comunque registrato una crescita positiva. Terza la Lombardia, tornata a crescere a ritmi sostenuti (2,2%), sebbene ancora inferiori alla media europea. Il primato negativo è dell’Umbria, che oltre ad avere subìto il calo più sostanzioso durante la crisi (-17,1 %) oggi risulta ancora in recessione, con una flessione dell’1%. Male anche Marche e Molise, rispettivamente con un -0,2% e -0,1%.
Da questo quadro emerge un’Italia spaccata in due (ma forse sarebbe meglio dire in tre), con il Nord che vede crescere il gap con il resto della Penisola. Un’inversione di tendenza appare, al momento, piuttosto improbabile: per risollevare le sorti economiche di alcune realtà italiane al Sud, sarebbe necessario, per quanto possibile, appianare le differenze strutturali e infrastrutturali che insistono tra i vari territori, attraverso investimenti mirati che permettano ad aree oggi in difficoltà di divenire attrattive per gli investitori privati. Inoltre, per ottenere un risultato concreto, sarebbe probabilmente utile che parte di questi investimenti fossero concentrati nel porre le basi per una maggiore diversificazione dei settori produttivi.
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