Sull’onda del crescente consenso elettorale raccolto dai partiti populisti europei, il quotidiano britannico The Guardian ha lanciato un’inchiesta per tentare di comprendere a fondo il fenomeno populista in Europa, ripercorrendone storia, caratteristiche e risultati alle elezioni. Vediamo alcuni dei passaggi principali.
A cosa ci riferiamo con il temine “populismo”?
Alla base dell’analisi, il Guardian ha posto la definizione di populismo di Cas Mudde, scienziato politico tra i massimi esperti dei fenomeni di estremismo. Riassumendo, per populismo si intende un’ideologia che tende ad inquadrare la politica come uno scontro tra due gruppi antagonisti: il popolo (virtuoso per definizione) e le élite (corrotte e malvagie). Per i populisti lo scopo della lotta politica sarebbe quindi affermare la supremazia della la volontà generale, del popolo. Tali fenomeni tendono spesso a svilupparsi accompagnandosi ad un’ideologia più classica, sia essa di destra o di sinistra.
Il partito o il movimento di stampo populista è già presente nello scenario politico a partire dalla fine dell’Ottocento – pensiamo al People’s Party negli Stati Uniti – anche in Europa: nel XX secolo, abbiamo, tra gli altri, gli esempi del Fronte dell’Uomo Qualunque in Italia o della Unione Democratica di Centro (tuttora esistente) in Svizzera. Il termine viene però posto al centro delle dinamiche politiche Occidentali solamente a partire dagli ultimi anni, soprattutto a seguito del voto sulla Brexit e dall’elezione di Donald Trump.
Sarebbe però difficile riuscire a trovare una risposta univoca alla domanda “come nasce il populismo?”. Se infatti le condizioni propizie affinché tali movimenti possano svilupparsi possono verificarsi in vari stati (ad esempio, la crisi economica e/o migratoria), ogni partito ha storia e caratteristiche proprie. Alla base, in ogni caso, vi è la capacita di intercettare quel sentimento di frustrazione di una parte degli elettori, convinti di essere stati traditi dalle forze politiche tradizionali, oramai accomunate alle élite – in senso dispregiativo.
Chi sono i “populisti”?
Ma quali sono, in Europa, i partiti populisti? Tra i populisti di sinistra si possono individuare Die Linke in Germania, il Socialistiese Partij nei Paesi Bassi, in Spagna Podemos e la sua versione catalana En Comu Podem, così come il recente movimento di Jean Luc Mélenchon, la France Insoumise, nato nel 2017. Ben più folta è, invece, la platea dei populisti di destra, tra i quali spiccano, ad esempio, l’ungherese Fidesz (il partito di Viktor Orbán), il polacco PiS, Alternative für Deutschland, il Rassemblement National di Marine Le Pen, lo UKIP di Nigel Farage e, ovviamente, la Lega di Matteo Salvini in Italia. Per quanto riguarda il nostro Paese, il Guardian annovera anche Forza Italia. Senza una collocazione ben definita, invece, il Movimento 5 Stelle che a detta dello studio del Guardian si trova al centro ma tende a sinistra, insieme all’irlandese Sinn Feinn e al greco Synaspismos Rizospastikis Aristeras (ossia la Syriza di Alexis Tsipras).
L’ascesa del populismo
Un team internazionale (formato da oltre 30 specialisti tra analisti e politologi) ha osservato i dati della performance elettorale di tutti i movimenti populisti in 31 paesi europei (UE e non solo). Per riassumere il quadro oggi esistente, basta esporre alcuni numeri: se nel 1998 i populisti partecipavano al governo di due soli stati (Svizzera e Slovacchia) e valevano meno del 7% dei voti complessivi, oggi sono al potere in 11 nazioni, e ben un cittadino europeo su quattro ha votato populista nelle elezioni più recenti. Venti anni fa, solamente 12,5 milioni di cittadini erano governati da esecutivi che annoveravano al proprio interno almeno una forza populista: oggi quei cittadini sono 170 milioni.
Ogni partito populista ha una propria storia. Ma è innegabile come l’origine del boom di consensi sia da individuarsi prima di tutto in quanto avvenuto nel 2008. La crisi finanziaria e la conseguente recessione hanno reso i sistemi fondati sui partiti tradizionali estremamente vulnerabili alle accuse di essere corrotti e di ignorare gli interessi dei cittadini. Contemporaneamente l’alta volatilità del voto e alcune situazioni emergenziali (pensiamo al caso italiano nel 2011) hanno portato i partiti tradizionalmente contrapposti (socialisti/socialdemocratici e popolari/conservatori) su posizioni sempre più convergenti su alcuni temi di policy, spalancando le porte alla narrativa populista secondo cui tra loro vi fosse alcuna differenza. In questa prima fase, in particolare, abbiamo assistito alla nascita di diversi movimenti populisti di sinistra nel sud Europa (Podemos, Syriza).
Successivamente, a partire soprattutto dal biennio 2014-2015 si è inserito il tema migratorio: la crisi dei flussi, le difficoltà nella loro gestione e una dilagante percezione di insicurezza tra i cittadini hanno favorito l’affermazione di un populismo di destra, soprattutto nel centro e nel nord Europa. È curioso – aggiungiamo noi – altresì osservare come, in una sorta di reazione a quanto appena scritto, nel corso dell’ultimo anno si stia registrando un’espansione nell’area populista di sinistra (anche grazie alla nascita di nuovi soggetti politici) in Paesi del blocco centro-nordico, con il risultato della nascita di un quadro sempre più polarizzato.
Infine, ha indubbiamente avuto un ruolo significativo anche il cambiamento che ha colpito i media: da una parte l’affermarsi dei social network, con il loro carico di disintermediazione e polarizzazione; dall’altra il calo dei profitti, ha spinto i media tradizionali a porre al centro dell’agenda argomenti in grado di vendere con più facilità, ad esempio riservando sempre più spazio a scandali politici e conflitti, trasmettendo la percezione di un loro aumento.
Se, come appena scritto, nel Centro e nel Nord Europa i partiti populisti tendono ad essere di estrema destra e nei paesi del Mediterraneo, duramente colpi dalla crisi economica, emergono invece anche e soprattutto a sinistra, negli ex paesi del blocco sovietico i populisti sono per lo più partiti di centro, nati come forze mainstream e che solo successivamente hanno abbracciato temi cari al populismo e al sovranismo.
La mappa del consenso populista è molto eloquente nel confermare quanto scritto sino ad ora. Nel 1998 in paesi come la Spagna, la Croazia, il Regno Unito, le Polonia, la Svezia, la Bulgaria e i paesi baltici (eccetto l’Estonia) non esistevano movimenti o partiti populisti. Oggi invece esistono e sono ben radicati nell’elettorato, se non addirittura in posizioni di governo, come accade in Polonia.
Tra il 1998 e il 2018 il trend è lapalissiano. La Grecia di Alexis Tsipras ha visto passare il consenso populista da meno del 10% a più del 30%; in Ungheria, nelle ultime elezioni, l’accoppiata Fidesz-KDNP ha ottenuto il 49% dei voti. In Franca il RN di Marine Le Pen è, nelle intenzioni di voto, il primo partito (con il 20%), mentre il nuovo soggetto politico di sinistra di Mélenchon è accreditato del 10%. In Germania, l’AfD è la prima forza di estrema destra, dai tempi della Seconda Guerra Mondiale, ad essere entrata in Parlamento, dove oggi detiene più di 90 seggi su 709, mentre in Svezia i Democratici Svedesi sono arrivati a quota 17,5%. Per non parlare del caso nostrano o, ancora, di quello di Giustizia e Libertà in Polonia (dal 9% del 2001 al 27% del 2015).
Esistono, però, anche alcune eccezioni: in Belgio, Slovenia, Lettonia e Estonia, ad esempio, le forze populiste sono passate da un consenso, nei primi anni della crisi, pari circa al 10%, alla quasi totale sparizione alle ultime elezioni. Il Portogallo, invece, sembra essere immune al “virus” populista, nonostante sia stata una delle realtà più colpite dalla crisi. Insomma, c’è ancora una parte del’Europa in cui il vento populista non soffia o ha smesso di soffiare. Almeno per il momento.
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