Nei giorni scorsi, il Movimento 5 Stelle e la Lega hanno raggiunto un accordo sulla riforma del quorum per i referendum. Il testo base, approvato dalla I Commissione Affari Costituzionali e da oggi in discussione alla Camera, introduce l’istituto del referendum propositivo e istituisce un quorum “approvativo” in luogo del quorum “partecipativo”, attualmente previsto per i referendum abrogativi.
La maggioranza propone la modifica degli articoli 71 e 75 della Costituzione (relativi, rispettivamente, alle leggi di iniziativa popolare e ai referendum abrogativi). Sempre in tema di riforme istituzionali, inoltre, in Commissione giacciono proposte di legge concernenti la riduzione del numero dei parlamentari, l’abbassamento dell’età per essere eletti in Parlamento, nonché la modifica della forma di governo in senso presidenzialista.
Iniziativa popolare e referendum
Il contratto di governo sottoscritto dalle due forze di maggioranza prevede la riforma dell’iniziativa legislativa popolare, senza specificare alcunché sul quorum necessario all’approvazione della legge nel caso in cui la stessa fosse sottoposta a referendum. L’accordo raggiunto è, di fatto, un compromesso tra la proposta di legge costituzionale avanzata dal partito di Luigi Di Maio, che non prevedeva alcun quorum, e la posizione della Lega, che intendeva istituirne uno. La mediazione è stata raggiunta per mezzo di un emendamento presentato da un deputato dell’opposizione, Stefano Ceccanti (PD).
La riforma della legge d’iniziativa popolare è volta a rafforzare gli istituti di democrazia diretta previsti nel nostro Paese. La proposta della maggioranza aggiunge all’iter previsto dalla Costituzione (presentazione di un progetto di legge sottoscritto da almeno 50 mila cittadini, ma nessun obbligo di discussione da parte del Parlamento), un’iniziativa legislativa “rafforzata”. Qualora 500 mila elettori presentino una proposta di legge e le Camere non l’approvino entro 18 mesi, l’intero corpo elettorale avrà la possibilità di esprimersi attraverso un referendum propositivo.
La proposta di legge viene quindi approvata qualora il numero di voti favorevoli in sede referendiale superi quelli contrari, a patto che i primi siano, come stabilito dall’emendamento Ceccanti, almeno un quarto degli aventi diritto al voto. Tale quorum è esteso, nella proposta della maggioranza, anche al referendum abrogativo, modificando così l’articolo 75 della Costituzione. Facendo un rapido calcolo, il contenuto referendario sarà approvato soltanto a condizione che i sì siano, oltre che in numero maggiore dei no, almeno 12,5 milioni, ovvero il 25%+1 degli aventi diritto al voto, che in Italia sono circa 50 milioni di cittadini.
Si tratta di una soglia finora sconosciuta ai cittadini italiani. Per i referendum abrogativi è infatti oggi previsto un quorum partecipativo: la consultazione è valida solamente se la metà più uno degli aventi diritto al voto si presenta alle urne. Il quorum approvativo è dunque volto a scoraggiare la pratica dell’astensione come strumento utile, a chi si oppone al contenuto di un referendum, per invalidare la consultazione.
Ma cosa accadrebbe se le Camere, in seguito alla discussione parlamentare, dovessero approvare una proposta parzialmente differente da quella originaria presentata dai cittadini? In questo caso, se il comitato proponente non rinuncia al testo originale, si indice un referendum sia sul testo iniziale che su quello approvato dal Parlamento: se approvate entrambe le proposte, è promulgata la legge che ha ottenuto più preferenze. Ai cittadini che si esprimono favorevolmente ad ambedue le proposte è riservata la facoltà di indicare quale dei due testi preferisce.
La proposta prevede inoltre dei limiti alle materie che possono essere oggetto di referendum propositivo. Per esempio, non si terrà il referendum qualora la proposta violi gli intangibili diritti costituzionali oppure qualora la stessa non preveda un’adeguata copertura finanziaria.
Le altre riforme
Come scritto, oltre alle proposte sullo strumento referendario e le leggi di iniziativa popolare, in Commissione Affari Costituzionali sono stati depositati dei testi che intendono modificare la Carta.
I gruppi della Camera e del Senato di Fratelli d’Italia hanno presentato una proposta di legge costituzionale volta a coinvolgere maggiormente i giovani nella vita politica. Lo strumento individuato per raggiungere quest’obiettivo è l’armonizzazione tra elettorato attivo ed elettorato passivo per i due rami del Parlamento. In altre parole, per essere eletti deputati basterà avere 18 anni (contro gli attuali 25), mentre l’età per diventare senatori verrebbe ridotta dagli attuali 40 anni a 25. Inoltre, si dispone l’abolizione dell’età minima per essere eletti a Capo dello Stato, attualmente fissato a 50 anni.
I senatori Patuanelli (M5S) e Romeo (Lega) hanno depositato un disegno di legge costituzionale che, in accordo con il contratto di governo, intende ridurre il numero dei componenti delle Camere. Dagli attuali 945 parlamentari si scenderà a 600: 400 deputati e 200 senatori, dei quali rispettivamente 8 e 4 da eleggere nella circoscrizione Estero. Il numero minimo dei senatori eletti in ciascuna regione italiana, che attualmente è fissato a 7, diventa 5. Fanno eccezione il Molise e la Valle d’Aosta che eleggerebbero un solo senatore. Anche il senatore Gaetano Quagliariello (Forza Italia) ha presentato una proposta di riduzione del numero dei parlamentari. Essa si differenzia dal testo dei senatori Patuanelli e Romeo soltanto in un dettaglio: il Molise continuerebbe a eleggere due senatori.
Più articolate sono le proposte che intendono modificare la forma di governo del Paese, tutte avanzate dalle opposizioni. La proposta Meloni e altri (Fratelli d’Italia) è la più dettagliata. Essa introduce il semi-presidenzialismo di impronta francese nonché la sfiducia costruttiva per il governo. Il Presidente della Repubblica, nella proposta Meloni, è eletto a suffragio universale e diretto per cinque anni e può essere rieletto una sola volta. L’età per l’elezione è ridotta a 40 anni dagli attuali 50.
Il sistema elettorale è analogo a quello francese: diviene Capo dello Stato chi ha ottenuto più della metà dei voti, con eventuale ballottaggio tra i due candidati più votati al primo turno. Il Presidente della Repubblica «dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile», ma la proposta prevede, come in Francia, che vi sia un governo guidato da un Primo ministro nominato dal Capo dello Stato, sulla base alla maggioranza politica del Parlamento. Quest’ultimo può revocare la fiducia al governo con il meccanismo della sfiducia costruttiva, ovvero indicando contestualmente alla mozione di sfiducia il nuovo Primo ministro al quale il Presidente della Repubblica dovrà conferire l’incarico. Al Presidente è comunque concessa la facoltà di sciogliere le Camere o una sola di esse.
Del tutto simile alla proposta Meloni è l’iniziativa dell’onorevole Russo (Forza Italia). Quest’ultima, tuttavia, non prevede il meccanismo della sfiducia costruttiva per la sostituzione del governo in carica.
Anche la proposta di Ceccanti e altri (PD) introduce il semi-presidenzialismo. Analogamente alle proposte Meloni e Russo, essa prevede l’elezione diretta del presidente della Repubblica per cinque anni con possibilità di una sola rielezione, nonché il medesimo sistema elettorale a doppio turno e la possibilità da parte del capo dello Stato di indire le elezioni di nuove Camere. L’età per l’elezione alla carica di Presidente è ridotta a 25 anni. La proposta Ceccanti non fornisce ulteriori disposizioni sulla forma di governo, la cui configurazione verrebbe pertanto delineata in apposite leggi costituzionali.
Concludiamo la rassegna delle proposte di modifica alla Carta costituzionale con il testo firmato dai senatori Cangini, Gasparri e Mallegni (Forza Italia). Anche questa proposta introduce l’elezione diretta del Capo dello Stato, ma si differenzia da quelle descritte in precedenza nella misura in cui essa non modifica la forma di governo del Paese. Infatti al Presidente della Repubblica, eletto per cinque anni e con possibilità di una sola rielezione mediante un sistema a doppio turno, non vengono attribuiti poteri esecutivi e di indirizzo politico. Il sistema resterebbe parlamentare malgrado la legittimazione popolare del capo dello Stato, in maniera simile a quanto accade in Austria, Irlanda e Islanda.
Hanno collaborato Salvatore Borghese e Giovanni Forti.
Le uniche riforme serie : senato ed regioni non le vogliono affrontare!