Cos’è lo shutdown?
Nel 1974, il Congresso degli Stati Uniti, dopo una serie di scontri che avevano caratterizzato la Presidenza Nixon, approvò il “Congressional Budget and Impoundment Control Act”. L’obiettivo era quello di rimarcare il ruolo esclusivo del Congresso nella gestione del budget federale, stabilendo un nuovo processo di approvazione e abolendo lo strumento dell’impoundment. Quest’ultimo era la possibilità, abusata proprio da Richard Nixon, che il Presidente potesse decidere di non spendere parte dei fondi allocati dal Congresso, aggirando di fatto la volontà delle camere.
La legge, pur con alcune modifiche successive, resta oggi l’impianto sul quale si basa il processo di approvazione del budget federale, la cui competenza è in capo, in via esclusiva, al Congresso. Al Presidente è riservata, però, la possibilità di non promulgarne la decisione, ponendo un veto, e chiedendo di intervenire su determinati aspetti.
Sin dalla riforma, le tensioni e i disaccordi venutisi a creare tra il potere legislativo e l’esecutivo, soprattutto se connotati da orientamenti politici differenti, hanno portato più volte a situazioni di stallo. L’unico modo per superarle è attraverso l’individuazione di un accordo tra il Congresso e il Presidente, atto a permettere la promulgazione della legge. Sino al raggiungimento di tale accordo, però, interviene lo shutdown, lo “spegnimento”. Si tratta del blocco totale o parziale delle attività amministrative federali non essenziali interessate dalle allocazioni di budget non approvate (ad esempio le agenzie di ricerca, pensiamo alla NASA, ma i disagi riguardano anche settori come quelli dei servizi postali o aeroportuali) .
In realtà, lo shutdown così come lo conosciamo oggi è conseguenza di quanto accaduto tra il 1981 e il 1982. È infatti solo da quel momento che, a causa di due pronunce del Procuratore Generale Benjamin Civiletti, la mancata approvazione del bilancio si traduce in un blocco delle attività amministrative non essenziali – sino ad allora invece procedute sempre regolarmente. La motivazione era semplice: non essendovi allocazione delle risorse per determinate voci del budget non poteva, per le stesse, esservi spesa.
Lo shutdown 2019 in numeri
Nel caso dell’attuale stallo, che procede dal 22 dicembre scorso, il nodo da sciogliere è quello del muro sul confine con il Messico, per il quale il Presidente Trump ha chiesto un finanziamento di 5,7 miliardi di dollari che il Congresso (soprattutto la Camera, a maggioranza democratica) non è intenzionato a stanziare.
Lo shutdown attuale prosegue da 26 giorni: si tratta del più lungo di sempre, più di quello che interessò il governo Clinton nel 1995 (21 giorni) e il governo Carter nel 1978 (17 giorni).
Il costo per le casse statunitensi – inizialmente stimato in poco più di un miliardo a settimana – è stato rivisto al rialzo: circa 2 miliardi ogni sette giorni. Ciò significa che, qualora dovesse protrarsi sino a fine mese, solo a gennaio sarebbe andato in fumo lo 0,5% del pil statunitense, con il rischio che i dati di crescita del primo trimestre segnino lo 0%.
Sono interessati dal blocco amministrativo nove dipartimenti, e circa 800 mila dipendenti federali (ai quali vanno aggiunti un numero imprecisato di contractors). La metà di loro lavora senza ricevere uno stipendio, mentre coloro i quali non ricoprono ruoli in attività considerate essenziali sono in congedo non retribuito. Ognuno ha perso una media di 5000 dollari. Occorre però sottolineare come il Congresso abbia approvato una legge atta a prevede, una volta risolta l’impasse, il pagamento degli arretrati ai dipendenti federali.
Ha collaborato alla redazione dell’articolo Andrea Viscardi
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