“Ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria”. Si tratta di una delle tre leggi della dinamica di Isaac Newton. Se applichiamo questa legge al climate change, quello che otteniamo è un domino di eventi catastrofici. Per comprendere perché, basta dare uno sguardo al “Global Warming of 1.5 ºC”, l’ultimo report dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) che tante polemiche ha suscitato lo scorso dicembre, durante la 24 esima Conferenza sul cambiamento climatico organizzata in Polonia a Katowice.
L’IPCC è un team scientifico di ricerca sul cambiamento climatico creato dall’ONU. Il suo ultimo studio parte dagli accordi di Parigi del 2015, con cui i 196 paesi sottoscrittori si impegnavano a ridurre le emissioni di gas serra. L’obiettivo stabilito a Parigi era contenere l’aumento della temperatura mondiale previsto da qui al 2030 a +1,5°C. Ed è proprio su questa variabile che si basano gli scenari tracciati dall’IPCC, che descrivono gli effetti (su scala globale) di un riscaldamento rispettivamente pari a 1,5°C e a 2°C.
Tanti fenomeni, una causa
Alcuni dei punti riportati nell’infografica riguardano temi più volte trattati dai media, il cui costo, in termini economici e umani, è evidente: l’innalzamento del livello dei mari, le inondazioni, la scarsità d’acqua avranno un enorme impatto, specialmente considerando le previsioni di crescita della popolazione mondiale (circa 8,5 miliardi nel 2030). Si pensi, ad esempio, alle regioni del Mediterraneo, tra le più vulnerabili alla scarsità d’acqua: con un innalzamento delle temperature di 2°C, vi sarebbe il 17% in meno di acqua potabile disponibile.
Si tratta di tante tessere di un domino, l’una appoggiata all’altra. E non sempre gravità o motivi della caduta sono facilmente intuibili. Proviamo, quindi, a far luce su come un singolo evento possa condurre a fenomeni distruttivi, prendendo ad esempio due fenomeni a volte sottovalutati: le ondate di calore e la morte dei coralli.
Le tessere del domino: le ondate di calore
L’ondata di calore è un periodo (lungo giorni o settimane) in cui si registra un aumento anomalo delle temperature rispetto alla media. Per comprenderne la pericolosità per l’uomo e le attività economiche, pensiamo a quanto avvenuto in Europa nel 2003. Nell’estate di quell’anno, il Vecchio Continente venne colpito da un’ondata di caldo senza precedenti (in Portogallo si raggiunsero picchi di 48°C). Gli effetti furono devastanti, e non solo per il numero di decessi (si registrò un eccesso della mortalità pari a 30.000 unità), ma anche per i contraccolpi di tipo economico. La produzione agricola venne gravemente danneggiata, e l’economia dei paesi europei subì complessivamente perdite pari a 13 miliardi di euro. Uno studio francese ha attribuito queste perdite proprio all’ondata di calore.
Partiamo proprio dalla Francia per esaminare uno degli effetti più gravi delle ondate di calore. Nel seguente grafico sono rappresentati, sull’asse X, i giorni da luglio a settembre 2003 con le temperature medie giornaliere massime (Tmax) e minime (Tmin). Sull’asse delle Y, è invece riportato l’eccesso di mortalità giornaliera. Si tratta del numero di decessi oltre la norma che si sono registrati in Francia.
Ad agosto (in corrispondenza dell’ondata di calore) la mortalità cresce manifestando una variazione nettamente superiore rispetto alla norma. Dopo una settimana consecutiva di massime oltre i 35°C, raggiunge il suo picco con i 2.200 decessi del 12 agosto (una delle giornate più calde), per poi scendere con il normalizzarsi della temperatura.
A tirare le somme sono i dati dell’Unep, il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente. Il numero totale di morti superiori alla norma nel 2003, in Francia, è stato di 14.082 persone. In Germania si è arrivati a 7.000, in Spagna a 4.200 e in Italia a 4.000.
Se si ipotizza che questo tipo di fenomeno si verifichi ogni cinque anni, colpendo il 37% della popolazione mondiale. Le conseguenze sarebbero disastrose e molteplici, ma la causa rimarrebbe solo una: il riscaldamento globale.
Le tessere del domino: la barriera corallina
Un’altra grave conseguenza del cambiamento climatico è la scomparsa (già in atto) della barriera corallina. Potrebbe sembrare un fenomeno di impatto scarso o addirittura nulla, ma in realtà i coralli svolgono un ruolo fondamentale.
Uno studio internazionale condotto dall’Università di Bologna (pubblicato su Nature Communications) ha dimostrato l’efficacia delle barriere come difese naturali dalla forza distruttiva delle onde, oltre al ruolo imprescindibile svolto nel mantenimento della biodiversità marina.
Se scomparissero i coralli, tutte le zone costiere limitrofe sarebbero maggiormente esposte a rischi e sarebbe necessario adottare misure preventive dai costi molto elevati. Inoltre, sempre guardando all’elemento economico, vi sarebbero anche conseguenze indirette, come la diminuzione dei flussi turistici, sui quali intere aree della barriera basano la propria economia.
Ma in che modo agisce, direttamente, l’aumento della temperatura? Tramite il bleaching, cioè la progressiva perdita di colore e – se così si può dire dire – della linfa vitale della barriera corallina. Un riscaldamento prolungato dell’acqua, infatti, determina la morte dei coralli. In questa animazione del Coral Reef Watch vengono mostrate le aree colpite dal bleaching solo negli ultimi sei mesi.
Per una visione su scala temporale più ampia, invece, c’è la mappa pubblicata sul Galapagos Research. Qui vengono messe a confronto le aree colpite dal bleaching nel 1998 e nel 2006. Nell’arco di soli 8 anni – dato che lascia intuire la velocità a cui si sta verificando il fenomeno – le aree soggette a severe bleaching si sono moltiplicate a vista d’occhio.
Cambiamento climatico: il peso dell’azione umana
In molti rifiutano di riconoscere le responsabilità umane alla base del cambiamento climatico, nonostante gran parte della comunità scientifica sia concorde nel ritenerle evidenti. Gli scettici chiamano in causa i fattori naturali: tuttavia, nessuno di essi sembrerebbe essere realmente in grado di incidere così in profondità sul climate change. La seguente elaborazione, basata sui dati dell’Istituto per gli Studi Spaziali della NASA, sembra al contrario dimostrare il ruolo preponderante dell’azione umana nel determinare i cambiamenti dell’ultimo secolo.
La linea nera indica l’aumento della temperatura. Come si può notare, l’incremento è proporzionale a quello delle attività umane che la comunità scientifica considera più incisive sul climate change. Al contrario, la somma dei fattori naturali risulta insufficiente a spiegare il riscaldamento globale.
Nella seconda sezione del grafico, invece, è possibile visualizzare nel dettaglio l’incidenza delle singole attività umane. Tra queste, è la produzione di gas serra ad aver contribuito maggiormente a provocare l’aumento termico. Difatti, la produzione sempre maggiore di gas nocivi per l’ambiente ha come conseguenza il cosiddetto “effetto serra”. Questo effetto conduce ad un progressivo riscaldamento globale. Tuttavia, ci sono anche altri fattori ad influire sull’aumento delle temperature, ovvero il cattivo utilizzo del suolo e la deforestazione.
Per quanto riguarda quest’ultima, i dati disponibili sono quelli del Global Forest Watch. Il progetto, firmato Google e Università del Maryland, è riuscito a quantificare in milioni di ettari (anche grazie alle rilevazioni NASA) la perdita d’alberi avvenuta dal 2001 al 2017.
Perdita d’alberi: le nazioni più interessate (2001-2017)
Le nazioni maggiormente colpite dal fenomeno sono Russia, Brasile, Canada, Usa e Indonesia. Insieme, Russia e Brasile superano la soglia dei 50 milioni di ettari boschivi persi dal 2001 al 2017. Anche considerando la quantità di alberi ripiantati (dal 2001 al 2012), nessuna delle aree colpite riesce a pareggiare il bilancio.
Il confronto: perdita e guadagno di alberi dal 2001 al 2012
Gli effetti sulla temperatura globale
L’unione di tutti questi fattori conduce ad un progressivo riscaldamento. In questa animazione (basata sui dati dell’Istituto GISS della Nasa) possiamo osservare quanto l’aumento delle temperature sia divenuto sempre più imponente con lo scorrere del tempo.
L’ultima occasione
Le indicazioni dell’IPCC per evitare che si superino gli 1,5 °C di temperatura media globale sono chiare. Basta carbone, usare fonti rinnovabili e ridurre le emissioni di CO2. I tempi stringono: sarebbe necessario arrivare a zero emissioni entro il 2050.
Tuttavia, nonostante l’emergenza, sul cambiamento climatico continuano a prevalere gli interessi economici. Durante la Cop24, il premier polacco ha affermato che la riduzione dell’uso del carbone comporterebbe una perdita troppo importante per l’economia del suo paese. Tra l’altro, l’opposizione di Usa, Russia, Arabia Saudita e Kuwait ha condotto i negoziati in una situazione di stallo. Persino il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, è intervenuto per esortare i Paesi a trovare un accordo.
Ma la ricerca di un compromesso si è rivelata stata complicata e la chiusura dei lavori (stabilita inizialmente per il 14 dicembre) è slittata. Il risultato finale è stato quindi soltanto un rulebook, ovvero un insieme di normative tecniche sulle modalità di riduzione delle emissioni. Secondo l’organizzazione ambientalista Greenpeace, l’esito della conferenza è insufficiente e gli impegni presi sono vaghi, nonostante la gravità della situazione. Secondo gli scienziati, restano appena 11 anni a disposizione per intervenire concretamente. Qualora la politica fallisse, la storia del cambiamento climatico potrebbe concludersi, per tutti, senza un lieto fine.
Affermando che lo scioglimento della calotta artica porterà all’innalzamento del livello dei mari si giocano la credibilità delle loro previsioni. Il ghiaccio artico è galleggiante quindi per la legge di Archimede, sciogliendosi,riacquista il volume di acqua che ha spostato. Sarebbe interessante anche capire come siano arrivati a previsioni così precise quando i fattori in gioco riguardo ai cambiamenti climatici sono così numerosi e non ancora del tutto chiariti come il nino i raggi cosmici, l’attività solare, l’aumento della fotosintesi, l’effetto tampone delle acque oceaniche ecc e non solo biossido di carbonio.
Hai ragione