C’era una volta il Regno Unito. Unito ma bipolare, come il suo sistema politico: Conservatori e Laburisti. Quando uno governa, l’altro è all’opposizione. Poi arrivarono le elezioni generali del 2015, vinte dai Conservatori di David Cameron con la promessa di rinegoziare i termini dell’appartenenza all’Unione Europea e di sottoporre a referendum quella stessa appartenenza. E così, nel giugno 2016, arrivò il referendum sulla “Brexit”, con cui – a sorpresa – i cittadini di Sua Maestà affermarono di voler uscire dalla UE. E il Regno (dis)Unito scoprì di non essere più diviso solo tra Conservatori e Laburisti, ma anche tra Brexiters (o Leavers) e Remainers.
Dopo le dimissioni di Cameron fu il turno di Theresa May, che invocò l’art. 50 del Trattato UE dando ad un lungo e complicato negoziato con Bruxelles per definire i termini della Brexit. Una trattativa resa ancor meno semplice dal fatto che, nel frattempo, gli stessi Leavers in UK si erano divisi in due fazioni: Hard Brexit o Soft Brexit?
Alla fine, dopo quasi due anni di negoziati (e dopo essere “inciampata” in elezioni anticipate che dovevano darle un mandato strong and stable e che invece resero ancora più traballante la sua maggioranza), Theresa May ha sottoposto al Parlamento una bozza di accordo ben poco accattivante: i partiti, già divisi al loro interno tra Leavers (hard e soft) e Remainers, si scoprirono ulteriormente divisi tra chi pensava che si trattasse di un pessimo accordo (molti) e chi invece lo trovava tutto sommato accettabile (pochi).
Oggi, dopo la clamorosa bocciatura (con oltre 200 voti di scarto) della sua proposta di accordo, Theresa May è in un vicolo cieco. La Camera dei Comuni ha da poco votato un emendamento con cui la invita a riaprire le trattative con Bruxelles per rivedere in particolare la spinosa questione del confine terrestre con l’Irlanda (il cosiddetto backstop). Peccato che la Commissione Europea, per bocca del suo presidente Jean-Claude Juncker e del negoziatore incaricato Michel Barnier, abbia già risposto picche: di riaprire il negoziato non se ne parla.
E adesso? Adesso, dopo anni di discussione sulla Brexit che hanno stremato la politica britannica, il Regno Unito è diviso come mai prima d’ora. Ma non è una divisione che riguarda solo la classe politica: l’istituto YouGov ha svolto un’indagine sugli elettori, per provare a capire in quante “tribù” si fossero suddivisi dopo anni di Brexit sì/Brexit no/Brexit forse.
Risultato: gli elettori del Regno Unito sono divisi in 16 diverse tribù, ciascuna delle quali opterebbe per una diversa combinazione delle 4 opzioni rimaste, teoricamente, sul tavolo (No Deal, Brexit con accordo May, Brexit con accordo differente stile “Norvegia”, nuovo referendum e vittoria del Remain). A seconda di quali e quante di queste 4 opzioni i singoli intervistati ritenevano accettabili, i ricercatori di YouGov li hanno classificati in 16 tribù di diversa consistenza. Nessuna di queste, però, è maggioritaria: la più numerosa include infatti solo il 18% degli elettori, meno di uno su cinque.
Una cosa da non sottovalutare – e che ci aiuta ulteriormente a comprendere il caos in cui versa l’opinione pubblica nel Regno Unito – è che la seconda tribù più “popolosa”, con il 15%, è quella che “non ne ha letteralmente idea”. D’altro canto, solo il 2% ricade nella categoria “mi va bene qualunque cosa”, a significare come, quale che sia l’esito finale, vi sarà quasi certamente un gran numero di scontenti.
Ma lo studio di YouGov va più a fondo, e indaga la composizione delle tribù in base alla loro appartenenza politica e al voto espresso in occasione del referendum 2016. Scopriamo così che gli elettorati dei partiti (tutti, non solo i due principali) sono estremamente divisi. Dal grafico emerge molto bene come una parte consistente – la più consistente, in effetti – degli elettori conservatori siano Hard Brexiters, ben poco inclini a compromessi, un fattore che ha reso (e continua a rendere) ben poco agevole lo spazio di manovra del governo conservatore di Theresa May. Per contro, e nonostante le ambiguità del loro leader Jeremy Corbyn, gli elettori laburisti sono per la maggior parte Remainers, o comunque a favore di una Soft Brexit.
Che gli elettori dei partiti siano divisi su un tema così “trasversale” è però tutto sommato comprensibile. Per questo il grafico sull’orientamento degli elettori in base al loro voto al referendum è ancora più sconcertante. Remainers e Leavers, restano, comprensibilmente, perlopiù fedeli alla scelta che fecero al referendum. Ma, qualunque sia la strada che verrà infine presa, una parte consistente di entrambi i gruppi ne risulterà scontenta.
Un 15% dei Remainers, infatti, rimarrebbe scontento anche se l’esito fosse un nuovo referendum che portasse al Remain. Se ci fosse una No Deal Brexit, invece, sarebbe scontento ben il 21% dei Leavers. Se ci fosse un nuovo accordo (stile “Norvegia”) i Leavers scontenti sarebbero addirittura il 54% – ma, paradossalmente, “solo” il 25% dei Remainers. Infine, se il Regno Unito dovesse rassegnarsi a una Brexit secondo i termini già negoziati (e già respinti in malo modo dal Parlamento) gli scontenti sarebbero ben il 59% dei Remainers e il 48% dei Leavers.
Insomma, un bel rebus. Difficile da sciogliere, se le parti in campo continueranno – come fatto fino ad ora – a guardare alle preferenze (tutt’altro che univoche) del loro elettorato di riferimento. Ma se invece si scegliesse una via semplicemente seguendo il criterio del “male minore”?
Anche qui la soluzione non sarebbe delle più semplici. Il sondaggio di YouGov, tirando le somme, mostra come sia difficile scegliere tra le 4 diverse opzioni anche considerando le preferenze degli elettori nel loro insieme. Lo avevamo già visto illustrando lo studio che metteva a confronto le varie opzioni con i vari metodi (Condorcet, second best). In questo caso, l’opzione preferita – o meglio, quella considerata “buona” dalla maggioranza relativa più consistente – è quella di un secondo referendum che avesse come esito il Remain. Problema: si tratta di un’ipotesi che vede favorevole solo del 36% degli elettori. Se invece si scegliesse l’opzione con il minor numero di giudizi negativi, la soluzione sarebbe la Brexit con un accordo in stile Norvegia, che ha complessivamente solo il 27% di contrari. Anche qui c’è un problema, e non di poco conto: e cioè che, come detto in apertura, la UE è ben poco propensa a riaprire di nuovo i negoziati per cercare un altro accordo.
Ciliegina sulla torta: più il Regno Unito indugia senza scegliere una strada, più aumenta il rischio che si finisca con una No Deal Brexit, ossia l’opzione vista con minor favore (solo il 32% la giudica una soluzione buona o accettabile) e con il maggior numero di contrari (52%). Col risultato, per certi versi paradossale, che una questione che doveva risolversi facilmente dando la parola al popolo si sta avviando pericolosamente verso un esito che al popolo potrebbe piacere poco – o per niente.
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