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Brexit, la May chiede un rinvio. E ora?

Formalizzata all’Unione Europea la domanda di estensione di 3 mesi dei termini dell’articolo 50, ma non è chiaro come saranno utilizzati. Come si è arrivati fino a questo punto?

Il 29 marzo, giorno che dovrebbe sancire la fatidica Brexit, ossia la fuoriuscita del Regno Unito dall’Unione Europea, è ormai dietro l’angolo. Eppure, non è ancora chiaro cosa potrebbe davvero accadere. Nonostante manchino pochi giorni, l’incertezza è massima. Cerchiamo allora di fare il punto della situazione, ripercorrendo brevemente le tappe che hanno condotto fin qui.

Nel 2015 i Conservatori guidati da David Cameron vincono le elezioni conquistando una maggioranza autonoma alla Camera dei Comuni (esito non scontato: 5 anni prima Cameron aveva dovuto fare un accordo con i Lib-Dem per formare un governo). In campagna elettorale Cameron aveva cavalcato lo scetticismo anti-UE (che nel 2014 aveva gonfiato le vele allo UKIP di Nigel Farage, primo partito alle Europee con il 27,6% dei voti) promettendo di rinegoziare i termini dell’appartenenza del Regno Unito all’Unione Europea e poi di sottoporre a referendum quella stessa appartenenza.

Il 23 giugno 2016 si va alle urne per il referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’UE, che vede la vittoria del “Leave” con il 51,9% dei voti contro il 48,1% del “Remain”. Cameron, che aveva annunciato le sue dimissioni se la sua proposta di rimanere nell’Unione dietro nuove condizioni fosse stata rigettata dagli elettori, lascia la guida del governo e del Partito Conservatore, che elegge al suo posto Theresa May. Il Governo May avvia formalmente la procedura per l’uscita dalla UE il 29 marzo 2017, in base al famoso art. 50 del Trattato sul funzionamento della UE: a partire da quel momento, la May ha due anni di tempo per negoziare con la Commissione Europea i termini che dovranno regolare i rapporti tra il Regno Unito e l’Unione. E i due anni scadono esattamente il prossimo 29 marzo.

Ad aprile 2017, la stessa May chiede lo scioglimento anticipato del Parlamento. L’obiettivo è quello di andare a nuove elezioni e ottenere un mandato pieno al suo governo per attuare la volontà popolare emersa con il referendum. È il primo, e forse più grave errore del Primo ministro: infatti, alle urne il Partito Conservatore non solo non conquista ulteriori seggi, ma addirittura perde la maggioranza assoluta. Solo grazie ad un accordo post-elettorale con gli unionisti nordirlandesi del DUP la May riesce a ottenere una (risicata) maggioranza e dare vita al nuovo esecutivo.

Dopo un anno e mezzo di trattative tra il Governo May e la Commissione Europea (a guidare il negoziato per conto di Bruxelles è il francese Michel Barnier) nel novembre 2018 viene raggiunto un accordo (withdrawal agreement) sui principali punti critici del divorzio tra Regno Unito e UE. Ma l’accordo non soddisfa né l’ala più “radicale” del Partito Conservatore – che vorrebbero una “hard Brexit” – né le opposizioni. Per cercare disperatamente di convincere i parlamentari a votare a favore del suo accordo, la May rinvia il voto del Parlamento al 15 gennaio 2019.

(Fonte: BBC)

Ma quel giorno l’accordo viene bocciato a stragrande maggioranza: 432 contrari, 202 favorevoli, la più grande sconfitta mai subita da un governo in carica a Westminster. May riapre le negoziazioni con Bruxelles, e a inizio marzo annuncia di aver ottenuto ulteriori rassicurazioni da Jean-Claude Juncker (in particolare per la spinosa vicenda del “backstop”, relativa al confine terrestre tra UE e UK in Irlanda). Ma, il 12 marzo, il Parlamento boccia anche questa versione dell’accordo, con 391 voti contrari e 242 a favore.

https://twitter.com/you_trend/status/1105820624918929409

 

(Fonte: BBC)

Come conseguenza della seconda bocciatura, il Governo portato quindi in aula, il 13 marzo, un mozione atta a verificare la volontà o meno della Camera a percorrere la strada del no-deal. La mozione, che se approvata avrebbe respinto la possibilità di uscire, il 29 marzo, senza accordo, viene però emendata in senso estensivo grazie a un testo presentato dall’opposizione, che rigetta, in linea assoluta e in qualunque momento, la possibilità di un no-deal. Occorre sottolineare come tale atto non sia, in realtà, vincolante per l’esecutivo, ma si tratta comunque di un’altra sconfitta per il Primo ministro.

La May, nel suo intervento dopo il voto, sottolinea come, a livello legale, l’ipotesi di una Brexit senza accordo non possa essere messa da parte. Anzi, vista l’intenzione della Camera di non voler approvare la bozza presentata in precedenza, e vista la più volte espressa volontà dell’Unione Europea di non riaprire i negoziati, le probabilità che si vada in questa direzione sono molte. Annuncia, comunque, per il giorno successivo, il voto su di una mozione per chiedere una proroga della scadenza del 29 marzo all’Unione Europea, cioè un’estensione dei termini dell’articolo 50. Mozione approvata, ed è di oggi la notizia della richiesta formale di tale proroga a Bruxelles. Il problema è che, nei fatti, non è chiaro per cosa sarà utilizzata.

https://twitter.com/you_trend/status/1106107788353327104

Difficile infatti che il suo accordo venga riproposto al voto del Parlamento, magari con qualche modifica formale. Lo speaker della Camera John Bercow ha annunciato che non consentirà che il Parlamento si esprima una seconda volta sull’accordo con la UE, a meno che non si tratti di un accordo “sostanzialmente” diverso. Per quanto questa notizia abbia spiazzato il governo, un modo per arginare il problema ed esprimersi una terza volta potrebbe essere trovato. Il vero ostacolo per Theresa May rimane che, attualmente, il Parlamento non ha alcuna intenzione di approvare l’accordo da lei proposto.

Inoltre, la stessa proroga non è scontata. Le regole europee consentono infatti a qualunque Stato membro sia di invocare che, come ha chiarito la Corte di giustizia dell’UE a dicembre, di revocare unilateralmente l’art. 50. Per ottenere un’estensione dell’articolo 50 è necessario, invece, che il Consiglio si esprima all’unanimità. Tradotto: è sufficiente il voto contrario di uno solo dei 27 Stati per negare la concessione di questi tre mesi di proroga al Regno Unito.

Nel frattempo, ci sono di mezzo le elezioni europee di maggio. Il nuovo Parlamento Europeo dovrebbe essere composto di soli 705 seggi (46 in meno rispetto al 2014) proprio in conseguenza della “Brexit”. Ma gli ultimi fatti hanno messo in discussione tutto. Il Regno Unito rischia ora, se la proroga dovesse essere approvata, di dover partecipare alle elezioni europee. Una decisione in tal senso sembra arriverà comunque solo a metà aprile, come ha fatto trapelare in giornata un funzionario dell’Unione. Si tratta di un’eventualità che potrebbe solo complicare un quadro già di suo già fin troppo ingarbugliato.

Cosa vogliono in tutto ciò i cittadini di Sua Maestà? I sondaggi, ormai da diverso tempo, indicano che un eventuale nuovo referendum sulla permanenza del Regno Unito nella UE darebbe un risultato opposto a quello del 2016, ma con margini ancora troppo ristretti per poter dire che il popolo abbia avuto un ripensamento. Inoltre, politicamente è molto difficile chiamare nuovamente i cittadini a esprimersi perché il governo non è stato in grado di seguire la loro indicazione originaria. Ma al momento non sembra che vi sia alcuna alternativa percorribile, e tutto questo rischia di portare dritto alla conclusione meno auspicata di tutte: ossia il cosiddeto “No Deal”, una “Brexit” non regolata da alcun accordo.

Se Atene piange, Sparta non ride: dai guai della May e del Partito Conservatore non sembra in alcun modo beneficiare il Partito Laburista, che nelle ultime settimane ha persino perso alcuni deputati (andati a formare il l’Independent Group insieme ad altri parlamentari). Ufficialmente le ragioni principali riguardano le accuse di anti-semitismo rivolte al leader Jeremy Corbyn, ma è chiaro che su questa scissione ha pesato anche la posizione – piuttosto ambigua – tenuta dai laburisti sulla vicenda “Brexit” fin dall’inizio. Secondo alcune indiscrezioni, lo stesso Corbyn starebbe pensando di lasciare la guida del partito, che nei sondaggi non riesce ad approfittare delle divisioni che lacerano i Conservatori.

(To be continued…)

Salvatore Borghese

Laureato in Scienze di Governo e della comunicazione pubblica alla LUISS, diplomato alla London Summer School of Journalism e collaboratore di varie testate, tra cui «il Mattino» di Napoli e «il Fatto Quotidiano».
Cofondatore e caporedattore (fino al 2018) di YouTrend. È stato tra i soci fondatori della società di ricerca e consulenza Quorum e ha collaborato con il Centro Italiano di Studi Elettorali (CISE).
Nel tempo libero (quando ce l'ha) pratica arti marziali e corre sui go-kart. Un giorno imparerà anche a cucinare come si deve.

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