L’ultimo mese ha dimostrato che il caos Brexit poteva diventare persino più caotico di quanto non fosse già. Per prima cosa Theresa May ha ottenuto uno slittamento di due settimane del termine ultimo per l’uscita, che infatti non è avvenuta il 29 marzo. Ma se entro venerdì 12 aprile non sarà approvato un accordo, per il Regno Unito ci saranno solo due orizzonti possibili: l’uscita senza accordo (No Deal) o un rinvio ancora più lungo, che costringerebbe il Regno Unito a partecipare alle prossime elezioni europee. Nel mentre, l’accordo di Theresa May ha subito la sua seconda e poi la terza bocciatura parlamentare, e otto diverse mozioni – contenenti altrettanti piani alternativi di uscita dall’UE – sono state respinte dalla Camera dei Comuni. A inizio aprile è stato anche approvato un disegno di legge che mira a scongiurare il No Deal. Ora la premier, dopo aver offerto anche le proprie dimissioni pur di far passare il suo accordo, sta cercando una sponda nel Labour di Jeremy Corbyn, scontentando però il suo partito. Insomma, non si vede la fine di questa vicenda.
A fare le spese di questa situazione questa volta sono proprio i Conservatori, crollati nel giro di un mese di quasi quattro punti (36,4%) nella nostra media dei sondaggi. Più vicini, ma anch’essi in discesa, i Laburisti (33,1%). Il dato più evidente è proprio il crollo dei due grandi partiti: se un anno fa laburisti e conservatori raccoglievano insieme oltre l’82% dei consensi, oggi tale quota è scesa a meno del 70%. In crescita lo UKIP, che nel giro di dodici mesi ha raddoppiato i propri elettori (6,3%), ma soprattutto la voce “altri”, che – come anticipato in un precedente articolo – si sta arricchendo di due formazioni: il Brexit Party di Nigel Farage, stimato nei sondaggi YouGov fra il 4 e il 5%, e l’Independent Group, che non si è ancora costituito come partito ma che secondo Opinium veleggia anch’esso intorno alla stessa cifra.
Regno Unito: le intenzioni di voto
A spostare gli equilibri rispetto a fine febbraio sono proprio gli elettori che votarono Leave nel referendum 2016: solo un mese fa il 56% affermava che avrebbe votato i Conservatori, mentre oggi il dato è sceso al 47%, con molti tifosi della Brexit spostatisi sullo UKIP. Pur se in misura meno netta, cala anche il consenso dei Laburisti fra i remainers (da 49% a 47%), mentre si ingrossa la platea di coloro che voterebbero “altro”, tra cui l’Independent Group – formazione nata proprio da un gruppo di parlamentari Labour anti-Brexit.
Rispetto al voto espresso nel 2017, i due principali partiti conservano ad oggi solo un elettore su due: lo rivela un sondaggio di YouGov (ben reso nell’infografica di Statista) secondo cui chi votò Conservatori e Laburisti due anni fa ad oggi sarebbe orientato solo per metà a riconfermare la propria preferenza. Una grossa fetta in entrambi gli elettorati (circa il 20%) si dichiara indecisa, un altro 7-8% sceglierebbe di astenersi e la restante parte sceglierebbe altri partiti (LibDem e Verdi per gli ex elettori Lab, UKIP e Brexit Party per gli ex elettori Con).
Se però, anziché per il Parlamento di Westminster, si votasse per le Europee, il voto del Regno Unito si ripartirebbe in modo ben diverso. I Laburisti sarebbero il primo partito con quasi il 30% dei consensi, seguiti dai Conservatori al 24%: la vera sorpresa sarebbe però lo UKIP al 17% e in terza posizione, lontani dall’exploit di cinque anni fa (quando il partito di Farage arrivò primo con il 26,6%) ma nettamente al di sopra dell’esito previsto in caso di elezioni generali.
Regno Unito: le intenzioni di voto in caso di elezioni europee
Sia la possibile partecipazione al voto delle europee, sia le possibili elezioni anticipate per la House of Commons dipendono però sempre da una cosa: cosa succede con la Brexit? L’opzione ritenuta più probabile dagli elettori, secondo il sondaggio di Opinium, è che il Regno Unito lasci l’Unione entro l’anno senza un accordo (No Deal), mentre le due opzioni ritenute più auspicabili sono un referendum fra l’accordo di Theresa May e il Remain (25% delle preferenze: in questo caso, sempre secondo i sondaggi, vincerebbe il Remain) e l’uscita immediata senza accordo (30%). L’opzione No Deal è oggi indicata come migliore soluzione dal 57% di chi votò Leave nel 2016.
Sebbene gli elettori non ritengano auspicabile che il Parlamento voti ancora (per la quarta volta…) sull’accordo di Theresa May, se ciò dovesse accadere il 41% si augura un voto favorevole, contro il 35% che vorrebbe un altro no. A sperare in un successo dell’accordo sono soprattutto gli elettori conservatori, mentre quelli laburisti si augurano un nuovo buco nell’acqua.
Opinium ha anche rilevato il gradimento delle otto mozioni bocciate dal Parlamento una settimana fa: la preferita, in generale, è quella del cosiddetto “close alignment”, che prevede che Regno Unito e Unione Europea continuino ad avere una relazione economica-commerciale molto stretta, mentre quella più osteggiata è la cosiddetta “custom union”, l’unione doganale permanente fra UK e UE.
Se i due partiti continuano a calare nei sondaggi, non se la cavano meglio i rispettivi leader. Il gradimento di Theresa May crolla al 24%, quello di Jeremy Corbyn al 18%, ed entrambi sono 11 punti più bassi rispetto a un anno fa. I pregi che vengono maggiormente riconosciuti alla premier sono il coraggio e la coerenza ai propri princìpi, mentre il leader dell’opposizione, oltre al coraggio, avrebbe dalla sua l’essere in sintonia con le persone comuni.
Eppure, il futuro politico della May sembra alquanto in discussione, se è vero che lei stessa ha recentemente offerto le proprie dimissioni per provare (inutilmente) a facilitare una risoluzione della Brexit. Ma chi dovrebbe succederle? Tra i papabili Conservatori, quello preferito dagli elettori sarebbe Boris Johnson, seguito da Jacob Rees-Mogg.
A pochi giorni dalla prossima grande scadenza, il 12 aprile, non si sa ancora se la vicenda Brexit è destinata a chiudersi fra poco o se sarà una storia che andrà avanti ancora per mesi, o addirittura anni.
Una questione relativa alle prossime elezioni del Parlamento europeo, che riguarda l’Italia in conseguenza della permanenza del Regno Unito dell’Unione Europea. In base alla decisione UE 2018/937 (https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTML/?uri=CELEX:32018D0937), se il Regno Unito parteciperà alle elezioni (come sembra inevitabile che accada), i membri del Parlamento europeo assegnati agli Stati membri saranno quelli decisi nel 2013, non quelli decisi nel 2018 senza considerare la presenza del Regno Unito (art. 3 c. 2). Per l’Italia, questo significa 73 membri anziché 76 come invece indicato nel decreto di attribuzione dei seggi alle circoscrizioni (https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2019/03/25/19A02051/sg). Mi sembra che ci sia molta confusione. Quanti europarlamentari saremo chiamati ad eleggere il 26 maggio, 73 o 76? Se saranno 73, a parte l’incoerenza del decreto, come si sceglieranno poi i 3 aggiuntivi quando (e se) il Regno Unito uscirà dalla UE?
Bella domanda! Il manuale della Camera (qui, a pagina 8) conferma la decisione del Consiglio Europeo: per l’Italia saranno eletti 73 deputati, anche se nelle liste ci sarà posto per 76 candidati. Non ci sono fonti a cui attingere però per capire con che criterio saranno ripescati i non eletti dopo l’uscita del Regno Unito.
Grazie per la risposta, è chiaro che in questo caso è opportuno l’intervento del legislatore (non potevano inserirlo nel decreto legge sulla Brexit?).
Tra l’altro, la distribuzione dei seggi a livello di circoscrizione avviene secondo una sentenza del Consiglio di Stato (n. 2886 del 2011) che prevede che la somma dei seggi distribuiti in ogni circoscrizione tra le liste sia pari ai seggi attribuiti alla circoscrizione stessa. Difficile che assegnando 73 seggi si riesca a raggiungere la somma di 76…
Probabilmente la soluzione più semplice per l’ufficio elettorale nazionale è di effettuare i calcoli come se dovessero essere eletti 76 europarlamentari, e non assegnare provvisoriamente i 3 seggi ottenuti coi minori resti (che andrebbero individuati nelle circoscrizioni in cui sono stati distribuiti con le minori parti decimali dei quozienti circoscrizionali).
Tuttavia senza un intervento legislativo chiarificatore prevedo grosso rischio di ricorsi a TAR e Consiglio di Stato (ricordo che per le elezioni del 2009 la vertenza si concluse nel 2011 con la sentenza succitata che cambiò l’assegnazione di due seggi).
Faccio notare che la Corte di Cassazione, con un comunicato stampa del 21 maggio (http://www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/Comunicato_elezioni_europee.pdf), ha adottato – in assenza di disposizioni legislative in materia – la soluzione ipotizzata nel mio commento del 23 aprile.
Sì, ne abbiamo parlato qui: https://www.youtrend.it/2019/05/28/il-mistero-dei-seggi-fantasma/