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5 lezioni dal voto in Spagna

Vittoria dei socialisti, sconfitta dei popolari. Ma anche in Spagna il voto è sempre più frammentato, e il bipolarismo è archiviato

Le elezioni legislative in Spagna hanno avuto un risultato chiaro, e per certi versi inaspettato: hanno vinto i socialisti del PSOE, guidati dal premier uscente Pedro Sanchez. Netta sconfitta per i popolari (PP) di centrodestra, che dimezzano i voti e non potranno governare nemmeno formando una coalizione con i centristi di Ciudadanos (C’s) e la destra di Vox (che entra per la prima volta in Parlamento).

I risultati: dopo poche ore dalla chiusura delle urne (le 20 italiane) i dati di scrutinio erano già definitivi, un lusso che in Italia stentiamo a immaginare. E la situazione è apparsa chiara, confermando i dati di sondaggio: il PSOE è il primo partito con il 28,7% dei voti, che gli valgono 123 seggi sui 350 totali del Congreso (l’equivalente della nostra Camera). Il PP è secondo con il 16,7% dei voti e 66 seggi, quasi dimezzato rispetto alle elezioni di tre anni fa.

I centristi di Ciudadanos guadagnano un milione di voti rispetto al 2016 e conquistano il terzo posto, con il 15,9% e 57 seggi. La sinistra di Podemos ottiene complessivamente (sommando anche la lista locale ECP, presentata in Catalogna) il 14,3% e 42 seggi. La “nuova destra” di Vox, che nel 2016 era praticamente inesistente, ottiene il 10,3% e 24 seggi. Buono il risultato per gli autonomisti catalani di ERC e JxCAT (15 e 7 seggi rispettivamente ) e baschi (PNV, 6 seggi).

In aumento l’affluenza, e non di poco: dal 66,5% del 2016 si è passati al 75,7% – quasi 10 punti in più, a conferma di una fortissima partecipazione. L’aumento è stato più intenso in alcune zone (quelle in blu scuro, nella nostra mappa) che in altre, ma tutte le regioni hanno registrato una variazione positiva.

  1. La sconfitta del centrodestra

Il dato forse più sorprendente è la sconfitta dei popolari, che hanno governato la Spagna dal 2011 all’anno scorso, quando il premier Mariano Rajoy è stato sfiduciato e al suo posto è salito Sanchez. Si tratta di un vero e proprio crollo (simile per molti versi a quello del PD alle elezioni italiane del 2018): il PP ha perso oltre 3,5 milioni di voti rispetto al 2016, ottenendo il risultato più basso dal 1989 (anno della sua fondazione), e soprattutto più che dimezzando i propri deputati, da 137 a 66. I popolari pagano ancora una grande impopolarità legata agli scandali di corruzione del caso Gürtel e all’intransigente durezza con cui Rajoy affrontò la questione catalana, di fatto esasperandola. La linea, meno moderata, scelta dal nuovo leader del partito – Pablo Casado – non ha convinto gli elettori.

La sconfitta dei popolari ha come diretta conseguenza l’impossibilità di formare un governo di centrodestra, frutto di un’alleanza a tre (inedita per la Spagna, abituata a governi monopartitici grazie a un sistema elettorale che premia i partiti maggiori) con Ciudadanos e Vox. Alcuni osservatori alla vigilia del voto ritenevano che questo fosse lo scenario più probabile, replicando su scala nazionale quanto avvenuto alle regionali in Andalusia lo scorso dicembre. Ma il risultato è stato deludente anche per Vox, il partito di destra nazionalista che ottiene certamente un buon successo, ma non fa “il botto” come alcuni temevano (o auspicavano) alla vigilia.

  1. Quale maggioranza?

Il PSOE non ha ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi (176) e dovrà quindi formare alleanze per governare. Qui sta il primo, grande dilemma: un’alleanza di sinistra con Podemos (che aveva già sostenuto il governo di minoranza di Sanchez nell’ultimo anno) si fermerebbe a 164 seggi. Diventerebbe fondamentale l’appoggio dei partiti autonomisti: quelli dei baschi del PNV, ma soprattutto quelli della sinistra indipendentista catalana (ERC). Il problema è che proprio questi ultimi hanno causato la caduta del governo Sanchez, bocciando la sua legge di bilancio per contrasti sulla questione dell’autonomia della regione di Barcellona. Come potrebbero ora riproporre un’alleanza?

Questa volta però Sanchez potrà fare leva su un’alternativa, per quanto politicamente difficile: un’alleanza con i centristi di Ciudadanos, acerrimi nemici dell’indipendentismo catalano (e non solo). È vero che il leader di questi ultimi, Albert Rivera, si è scontrato duramente con Sanchez durante la campagna elettorale, e già in occasione delle elezioni andaluse ha scelto di formare una coalizione di destra piuttosto che allearsi con i socialisti. Ma la somma dei seggi di PSOE e C’s (180) darebbe una maggioranza piuttosto solida, e questo potrebbe spingere gli indipendentisti (ma anche la stessa Podemos) a non avanzare rivendicazioni eccessive in sede di trattative per la formazione di un governo. Per Sanchez si tratterebbe di un gioco rischioso, poiché la sua base ha più volte dimostrato ostilità verso Rivera, ma – in Spagna come in Italia – contano i numeri.

Ad ogni modo, i socialisti sono certi di governare, perché senza il PSOE non esiste alcuna possibilità di formare una maggioranza. E anche perché al Senato (che non dà la fiducia al governo ma ha comunque delle prerogative legislative) il PSOE ha ribaltato la situazione del 2016, conquistando 121 seggi e la maggioranza assoluta. E bisogna ricordare che in Spagna sono possibili anche governi di minoranza, dove basta la maggioranza relativa dei seggi: in passato gli autonomisti hanno già consentito la nascita di governi socialisti anche se il PSOE aveva meno di 176 seggi (l’ultima volta accadde nel 2008 a Zapatero.

  1. Addio bipolarismo

Tutto questo parlare di alleanze è una novità per la politica spagnola, che da quando esiste la democrazia e fino al 2011 si è sempre imperniata sulla alternanza tra due grandi partiti (socialisti e popolari). Queste elezioni infatti archiviano definitivamente il tradizionale bipartitismo, già messo in crisi negli ultimi anni dall’ascesa di nuovi partiti a sinistra (Podemos) e al centro (Ciudadanos). Ancora nel 2008 PSOE e PP raccoglievano complessivamente i voti di oltre 8 elettori su 10: oggi tale quota è scesa al 46%, il dato più basso degli ultimi 30 anni. Con l’ingresso sulla scena anche della destra di Vox, il sistema politico spagnolo in questo momento vede ben cinque partiti di dimensioni rilevanti. In questo la Spagna sembra seguire le stesse dinamiche già viste in Italia, Francia e Germania.

Un’idea di quanto la tradizionale tendenza degli elettori a concentrarsi su due partiti principali stia declinando la dà proprio il risultato dei socialisti del PSOE. Non era mai successo che il primo partito in Spagna ottenesse meno del 30% dei voti (tranne una volta, al PP nel 2015: ma si tornò a votare dopo 6 mesi). Il partito di Sanchez oggi vince ma con una percentuale inferiore a quella del 2011, quando con il 28,8% fu nettamente sconfitto dal PP.

In questo caso, però, il crollo degli storici avversari popolari porta i socialisti davanti in quasi tutte le regioni della Spagna, e non solo: in 22 delle 25 città più popolose il PSOE è il primo partito, confermandosi forte non solo nelle realtà rurali (dove il voto ai partiti tradizionali è più forte) ma soprattutto nei centri urbani dove la concorrenza dei nuovi partiti (Podemos e C’s) è più insidiosa.

  1. Il voto locale punisce i popolari

La batosta per il PP non si evince solo a livello nazionale: uno sguardo ad alcune realtà locali mostra quanto gli elettori si siano espressi contro i popolari. Significativo è il caso della capitale Madrid, storica roccaforte del PP: qui il partito dimezza i voti rispetto al 2016 (dal 40% al 20%) e viene insidiato da C’s (19,9%), mentre il PSOE conquista il primato salendo al 27% e la destra di Vox ottiene un notevole 12,7%.

In Catalogna va ancora peggio: qui il PP che già andava male (13% nel 2016) sprofonda sotto il 5%, mentre il successo va alla sinistra autonomista di ERC (il cui leader Oriol Junqueras è in carcere per il tentato “colpo di mano” indipendentista del 2017), primo partito con quasi il 25%. Gli indizi di una forte partecipazione al voto in Catalogna si sono avute già nel pomeriggio, quando l’affluenza nella regione di Barcellona ha fatto registrare picchi notevoli (addirittura +20% rispetto al 2016).

Ancora: in Andalusia, la regione più popolosa della Spagna, il PP è solo terzo, doppiato dal PSOE (34%). Il tutto a pochi mesi di distanza dalle elezioni regionali che avevano consegnato al centrodestra una roccaforte storica dei socialisti.

  1. Sondaggi e previsioni: a volte “funzionano”

A differenza che in Italia, in Spagna è possibile diffondere sondaggi fino al settimo giorno che precede il voto. In questo caso, le tendenze rilevate dagli istituti demoscopici spagnoli sono state confermate: la vittoria del PSOE, il crollo del PP (sia pure in misura non così drammatica), e persino l’ordine di arrivo degli altri partiti e le loro percentuali erano stati tutti sostanzialmente previsti dalle rilevazioni della vigilia. Il sondaggio diffuso alla chiusura delle urne (le 20 italiane), basato su 12.000 interviste effettuate nel corso dell’ultima settimana ha fornito una stima sostanzialmente corretta sia delle percentuali di voto sia della distribuzione dei seggi con diverse ora di anticipo – nonostante una leggera sovrastima del dato di Podemos e di Vox.

Che i sondaggi della vigilia fossero accurati lo confermano gli scenari messi a punto dal quotidiano El Pais prima del voto: tra i tanti possibili, lo scenario meno sorprendente, quello che avrebbe confermato esattamente i dati dei sondaggi, dava come esito esattamente ciò che si è verificato: una vittoria del PSOE e la possibilità di formare sostanzialmente due maggioranze alternative (quella con Podemos e gli autonomisti oppure quella con Ciudadanos).

Anche questa volta, come in occasione delle elezioni precedenti, vanno quindi fatti i complimenti ai sondaggisti spagnoli, in grado di fotografare correttamente una realtà politica in costante mutamento e con un livello di frammentazione molto superiore rispetto al passato.

Salvatore Borghese

Laureato in Scienze di Governo e della comunicazione pubblica alla LUISS, diplomato alla London Summer School of Journalism e collaboratore di varie testate, tra cui «il Mattino» di Napoli e «il Fatto Quotidiano».
Cofondatore e caporedattore (fino al 2018) di YouTrend. È stato tra i soci fondatori della società di ricerca e consulenza Quorum e ha collaborato con il Centro Italiano di Studi Elettorali (CISE).
Nel tempo libero (quando ce l'ha) pratica arti marziali e corre sui go-kart. Un giorno imparerà anche a cucinare come si deve.

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