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USA 2020, le primarie “affollate” dei Democratici: chi sarà lo sfidante di Trump?

La corsa per provare a sconfiggere Donald Trump alle elezioni presidenziali statunitensi del 2020 è piuttosto affollataAd oggi risultano, infatti, centinaia di candidati minori e ben venticinque “major candidates”, di cui venti già protagonisti del primo dibattito televisivo, organizzato su due turni tenutisi il 26 e 27 giugno scorsi. Anzi, forse ventisei, visto che l’ultimo, Tom Steyer, si è appena candidato.

L’elevato numero di partecipanti, la relativa popolarità di alcuni di loro e il cospicuo lasso di tempo che ci divide dall’avvio delle primarie dem (3 febbraio 2020, come sempre in Iowa) sono elementi che rendono oltremodo difficile riuscire, sin da ora, individuare i candidati che potremmo definire “principali” e scommettere su una rosa di nomi per la nomination finale (anche Nate Silver, il guru dei guru dei sondaggi negli Stati Uniti ha confessato di non averne idea).

Ad ogni modo, nel corso dei dibattiti già menzionati sono andate delineandosi alcune dinamiche senz’altro rilevanti, da analizzare con attenzione. Partiamo dalla questione primaria. Quali sono i candidati da tenere d’occhio in questa affollatissima corsa?

Meritevoli di osservazione sono senz’altro Joe Biden, Cory Booker, Pete Buttigieg (se ve lo state chiedendo anche voi sappiate che si pronuncia così, più o meno), Julian Castro, Kamala Harris, Beto O’Rourke, Bernie Sanders, Elizabeth Warren, Bill de Blasio, Kirsten Gillibrand, John Hickenlooper e Andrew Yang

Attenzione, non tutti sono in corsa per la nomination finale e anzi, pur tenendo in debita considerazione le premesse di cui sopra, si può persino dire che per molti di costoro il reale obiettivo non sia affatto la vittoria.  Per alcuni candidati infatti la partecipazione alle primarie è innanzitutto una vetrina, un modo per farsi conoscere dai media e nel territorio di riferimento, per far circolare il proprio nome. Le regole per partecipare ai dibattiti, peraltro, sono piuttosto restrittive e arrivare al terzo confronto di settembre non sarà così facile.

Alcuni dei candidati di cui sopra sono politici noti. Joe Biden, ad oggi e sin dall’inizio delle rilevazioni demoscopiche in testa a ogni sondaggio, è senz’altro il più conosciuto. È stato per otto anni il Vice Presidente di Barack Obama, è un politico espertissimo (senatore dal 1973 al 2009) e il suo nome è conosciuto pressoché da chiunque. Partire da favorito e con il tasso di notorietà più elevato, però, non è sempre un grande vantaggio. Nel corso della campagna di norma questo tipo di candidati attira molta attenzione e su di essi si concentrano aspettative altissime.

Non a caso, durante il dibattito che ha visto la sua partecipazione, a dominare la scena sono stati i continui attacchi rivoltigli dagli altri candidati. Il momento più interessante e significativo si è verificato quando Kamala Harris, di origini per metà giamaicane e per metà indiano-americane e dotata di notevole capacità mediatica e oratoria, lo ha attaccato sul tema della razza, con fare non particolarmente delicato, rimproverandogli alcune sue posizioni tenute negli anni ’70 sul cd busing (una delle metodologie escogitate contro la segregazione razziale, in base alla quale i bambini andavano accompagnati dagli autobus scolastici in istituti lontani dal proprio quartiere).

Harris ha cercato di personalizzare la questione, affermando di essere stata, da bambina, tra le vittime di quella segregazione, un escamotage dialettico di sicura efficacia e che garantisce spesso una buona dose di riuscita. Biden ha provato a difendersi ricordando alla sua accusatrice di essere stata a lungo Procuratrice della California e perciò più dalla parte della repressione e non dei repressi. Molti osservatori hanno però notato come la sua risposta sia rimasta meno efficace dell’accusa, e che Biden sia uscito sostanzialmente ridimensionato dal dibattito. 

Questo è, chiaramente, solo un episodio, e la strada è ancora molto lunga. Rappresenta, però, un paradigmatico esempio di come i nastri di partenza nascondano sempre insidie e come essere il candidato più noto, esperto, conosciuto e finanziato non comporti necessariamente avere più chance di vittoria. D’altra parte, all’inizio delle primarie del Partito Repubblicano per le presidenziali 2016 il favoritissimo era Jeb Bush, l’ultimo esponente della dinastia di famiglia, e Donald Trump veniva considerato un candidato secondario, un outsider. Sappiamo come è andata a finire. La storia delle primarie statunitensi, soprattutto quella recente, abbonda di discese ardite e rapide risalite.

Se Kamala Harris ha avuto modo di emergere nel dibattito e di farsi conoscere in questo modo a un pubblico più vasto, la candidatura che sembra in grado, ad oggi, di minacciare il primato di Biden è quella di Elizabeth Warren. È una donna da anni impegnata in politica, molto conosciuta nell’ambiente progressista e soprattutto popolare tra le frange più radicali. Ha un ottimo rapporto con i movimenti e le aree che guardano al Partito Democratico con diffidente interesse e ha una notevole quantità di proposte concrete e immediate, che sembrano avere presa notevole e che, soprattutto, stanno orientando molto la discussione. Ha partecipato al primo dibattito, dove era la candidata più in vista. Questo le ha reso la vita più semplice. Rimane il fatto che è una candidatura che sembra avere, proposte a parte, un’arma in più rispetto a quella di Biden: empatia ed emozione. È, peraltro, una questione da seguire per capire come si comporteranno gli elettori dell’area più radicale. Nonostante abbia sostenuto Hillary Clinton alle primarie 2016, la Warren occupa un’area politica molto simile a quella di Sanders e questo rende improbabile che a lungo andare entrambi rimangano candidati. È interessante notare, però, come la loro base elettorale non sia poi così simile e le seconde scelte dei rispettivi sostenitori siano molto diverse: Biden nel caso degli elettori di Sanders, Harris per i simpatizzanti della Warren. 

Un altro competitor che sembra aver ingranato la marcia giusta quantomeno per sfruttare al meglio l’occasione è il semi impronunciabile Pete Buttigieg. È giovane (classe 1982); è istruito, gay e attivista per i diritti civili; è sindaco di una piccola città dell’Indiana; ha un’esperienza significativa nella missione della Marina in Afghanistan ed è già assurto agli onori della cronaca e del dibattito politico. Nel 2014 il Washington Post lo definì “il sindaco più interessante di cui non avete sentito parlare” mentre nel 2016 un (premonitore?) fondo del New York Times si chiedeva se potesse diventare il primo Presidente dichiaratamente omosessuale degli Stati Uniti. Il suo problema maggiore è simile a quello di Sanders: non gode di particolare simpatia presso gli elettori neri e ispanici e nei sondaggi i suoi numeri non sono esattamente da capogiro (5-6%).

L’andamento dei dibattiti e dei sondaggi sta inevitabilmente concentrando l’attenzione di tutti, anche la nostra, su alcuni dei numerosi candidati, nonostante siano in corsa il sindaco di New York, un imprenditore con una storia personale da raccontare e da conoscere come Andrew Yang, un senatore abbastanza noto come Beto O’Rourke che è andato vicino a vincere nel tradizionalmente rosso Texas alle elezioni di metà mandato. 

L’andamento della media dei sondaggi mostra come Biden da maggio a oggi abbia perso molto terreno (dal 41,4% al 26,8% secondo la media di RCP) a vantaggio soprattutto di Warren (dall’8% al 15,2%) e Harris (dal 7% al 15%).

Il tutto si inserisce nella big question della politica americana, la madre di tutte le domande: gli elettorati dei due partiti si stanno polarizzando? Per decenni la leggenda ha voluto che le elezioni si vincessero al centro e che l’elettorato da conquistare fosse, di conseguenza, quello cosiddetto moderato. Da tempo molti segnali ci dicono che le cose non stiano più così. In un certo senso già la candidatura, e poi la vittoria, di Barack Obama fu un segnale molto forte Venendo a tempi più recenti, il successo di Donald Trump, la poderosa e non pronosticata performance di Bernie Sanders alle primarie dem del 2016 e l’emergere di nuove personalità politiche giovani e particolarmente efficaci come Alexandria Ocasio-Cortez sono elementi significativi e da tenere sempre presente quando si parla di politica made in USA. Sarà necessario anche individuare un candidato Vice Presidente in grado di colmare le lacune del vincitore o di controbilanciarne alcune caratteristiche: ecco allora che candidati apparentemente secondari – o comunque indietro nei sondaggi – come il giovane Buttigieg o l’ispanico Castro potrebbero rientrare in gioco.

C’è, infine, un elemento particolarmente significativo che vale più delle proposte, delle simpatie, delle singole opinioni. Trump è, ad oggi, un Presidente con un consenso relativamente basso, ma non bassissimo. La media degli ultimi sondaggi riporta un tasso di approvazione del 42,6% tra gli elettori statunitensi: visto il sistema elettorale che contraddistingue le Presidenziali USA la possibilità che possa essere rieletto esiste ed è da molti considerata concreta, nonostante negli ultimi anni le performance dei Democratici nel voto popolare in occasione delle elezioni presidenziali siano state complessivamente molto positive (di fatto, hanno preso meno voti dei repubblicani solamente nel 2004). 

Probabilmente è per tale ragione che la maggioranza degli elettori dem almeno su una cosa concorda. Come riportato da una ricerca della Suffolk University dello scorso marzo, la caratteristica principale del candidato alla Presidenza deve essere quella di essere in grado sconfiggere The Donald. Ai Democratici, in buona sostanza, alla fine interessa vincere.

Francesco Magni

Nato a Roma nel 1988, dopo la laurea in giurisprudenza ha esercitato per tre anni la professione di avvocato. Oggi è funzionario del Ministero dell'Interno. Mantiene vivi la passione e l'interesse per le questioni politiche ed elettorali che cerca sempre di analizzare, ove possibile, alla luce della sua formazione giuridica.

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