Risparmi, distribuzione della ricchezza, investimenti nelle infrastrutture nell’Italia post-crisi: sono questi i temi sotto la lente di ingrandimento del secondo rapporto AIPB-CENSIS.
Sono molti gli indicatori in grado di anticipare o testimoniare la ripresa economica di un Paese che ha da poco sperimentato la grande recessione. Le rilevazioni effettuate dal CENSIS nelle ultime settimane ci riportano un quadro dettagliato anche rispetto alle tendenze delle famiglie italiane in diversi ambiti finanziari. La cornice è sicuramente quella di un Paese che esce impoverito dagli anni della crisi, come testimoniato da due indicatori: la ricchezza finanziaria totale delle famiglie italiane, che nel 2018 si attesta a 4.218 miliardi di euro (-0,4% rispetto al 2008), ed il valore mediano di tale ricchezza, che nel 2016 risultava pari a 5.933 euro, contro i 6.888 di 10 anni prima (-13,9%).
Famiglie e ricchezza: cresce il bottino “sotto il materasso”
L’ammontare del denaro contante nei portafogli degli italiani supera l’intero PIL spagnolo. Osservando la ricchezza finanziaria totale, si evince come non tutte le voci che compongono il portafoglio abbiano subito una flessione. Nel 2018, infatti, il 22,6% delle ricchezze delle famiglie italiane è in denaro contante, in netta crescita nell’ultimo decennio (+33,6%), così come i fondi assicurativi (ramo vita e fondi pensione +49,4%). Due tendenze che mostrano come il nostro Paese esca dalla crisi impaurito dal futuro, in particolare rispetto ai rischi di natura sociale o sanitaria (malattia, vecchiaia, disoccupazione).
Il futuro, infatti, spaventa sempre di più: se nel 2018 coloro che esprimevano questo tipo di preoccupazione erano meno di un italiano su due (46,5%) a distanza di un anno si registra un 53,4% di cittadini che guardano con timore agli anni a venire. Non è quindi un caso se nell’ultimo anno l’unico strumento finanziario in crescita sono i depositi bancari e postali.
La crisi aumenta le disuguaglianze
Incrociando la variazione di ricchezza finanziaria mediana nel decennio 2006-2016 con le principali variabili demografiche, si ottiene la fotografia di un Paese in cui la crisi non ha colpito tutti allo stesso modo.
Il primo dato che balza all’occhio riguarda le generazioni: a perdere la maggior parte della ricchezza relativa sono state le fasce più giovani (-54,6% per gli under 35); al crescere dell’età del capofamiglia diminuisce la perdita di ricchezza finanziaria familiare, fino ad arrivare alla fascia degli over 65 che è l’unica ad arricchirsi, sia pure non di moltissimo (+7%). In termini assoluti, la fascia anagrafica a detenere maggiore ricchezza è ancora quella compresa tra i 55 e i 64 anni, i cui capifamiglia, pur perdendo ben il 27,7% in 10 anni, si attestano intorno ad un valore mediano di circa 8.000 euro.
Ricchezza finanziaria mediana delle famiglie italiane, per età del capofamiglia
Nonostante la recessione, poi, si riduce il gender gap. Infatti, nelle famiglie in cui i più alti redditi provengono da membri di sesso femminile si ha nel 2016 un valore mediano inferiore al 25% circa rispetto a quelle in cui il principale percettore è di sesso maschile, laddove 10 anni prima la differenza era pari al 31%.
Ricchezza finanziaria mediana delle famiglie italiane in base al sesso del principale percettore di reddito
Ancor più accentuati sono gli effetti nelle diverse aree del Paese: il valore mediano riferito alle famiglie del Nord Italia cala del 41,5%, mentre quello delle famiglie del Sud e delle Isole del 28,2%. Cresce del 18,8% la ricchezza nelle famiglie residenti nel Centro Italia, in controtendenza con il resto del Paese.
Ricchezza finanziaria mediana delle famiglie italiane, per area geografica
Il titolo di studio non sembra collegato all’impoverimento, mentre è molto indicativa la numerosità del nucleo familiare. Si va dal -16,3% per le sempre più diffuse famiglie con un solo componente (spesso in pensione) fino al -38,7% di quelle con 5 componenti o più.
Ricchezza finanziaria mediana delle famiglie italiane, per numero di componenti
Infine, si registra una certa sperequazione anche in base alla professione del capofamiglia: gli operai sarebbero i più penalizzati (-41,6%), seguiti da imprenditori e liberi professionisti (-29,6%), dagli impiegati (-27,2%) e da chi occupa posizioni dirigenziali e direttive (-22,8%).
Ricchezza finanziaria mediana delle famiglie italiane, per categoria professionale
La sperequazione non è un problema per tutti
A più riprese nel rapporto si parla degli italiani come un popolo di risparmiatori, una caratteristica che sembra spiccare negli ultimi anni ma che da molto più tempo interroga i decisori pubblici nell’esercizio dell’intervento statale in materia economica.
Un punto fermo, che vede un consenso ampio e trasversale, riguarda la tassazione: il 76,8% degli italiani è contrario a tassare i risparmi più di quanto sia tassato il denaro destinato ad investimenti in economia reale, dalle imprese alle infrastrutture. Il dato attraversa il corpo sociale e i territori senza particolari eterogeneità.
Più discussa, invece, risulta l’opinione riguardo a chi detiene le fette maggiori della ricchezza, seppur il dato complessivo indichi un orientamento chiaro che si è rafforzato nell’ultimo anno. Il 66,1% degli italiani ritiene infatti la ricchezza “un’opportunità, se si stimolano i detentori ad investirla bene creandone di nuova da redistribuire”: si tratta di un dato in forte crescita rispetto al 52,4% dello scorso anno. Il 23,4% definisce invece la ricchezza come “un costo, perché è nelle mani di una minoranza e danneggia la capacità di spesa della maggioranza e quindi l’economia”; infine la restante parte, prevalentemente composta da popolazione anziana, la descrive come “una cosa inutile, perché tanto la portano altrove, lontano, in altri Paesi”.
L’opinione maggioritaria – ossia la richezza come opportunità – registra flessioni sensibili in alcune categorie sociali, in particolare tra coloro che hanno redditi inferiori a 15mila euro annui (54,2%), tra chi detiene titoli di studio bassi (53,7%) e tra i disoccupati, dove l’opzione diventa minoritaria col 47,5%.
Infrastrutture: un investimento strategico
Il fulcro del rapporto è il focus sulle infrastrutture. È innegabile che queste abbiano occupato un posto di rilievo nel dibattito pubblico negli ultimi anni, giocando un ruolo strategico nello sviluppo del nostro Paese nel corso di diversi decenni. Sono molti i temi all’ordine del giorno, dalla manutenzione della rete infrastrutturale esistente, soprattutto dopo la tragedia del ponte Morandi, al dibattito sulla realizzazione di nuove opere (TAV Torino-Lione, Mose di Venezia, TAP in Salento…).
Il rapporto tra ricchezza e infrastrutture risulta intenso e simbiotico, da un lato per le spese di realizzazione, gestione e manutenzione, e dall’altro per le ricadute economiche sul territorio, sui cittadini e sulle imprese. Le infrastrutture possono essere intese quindi come un’importante forma di investimento anche per la ricchezza privata.
L’89,3% degli italiani ritiene strategico investire in infrastrutture, con un picco del 91% al Nord Est. La principale ragione di questa ampia fetta di popolazione risiede nella capacità di creare lavoro durante e dopo la realizzazione (54,3% dei favorevoli al quesito precedente), mentre la maggioranza dei contrari preferisce che si dedichi più attenzione alla manutenzione di quelle esistenti. Una percentuale simile di cittadini risulta altresì favorevole ad un regime fiscale agevolato per i privati che investono in infrastrutture (83,8%).
Certamente si tratta di un tema comunque ampio, come evidenzia il fatto che, alla richiesta di indicare le tre priorità in materia, le risposte sono piuttosto variegate. La messa in sicurezza del territorio rimane la prima scelta degli intervistati col 50,7%, seguita dalla riconversione ecologica dell’approvvigionamento energetico col 39,3% (prima scelta tra gli under 35) e dagli investimenti sul patrimonio artistico e culturale col 33,2% (prima scelta tra i redditi più elevati e tra i laureati).
Cosa frena le infrastrutture?
Tuttavia, quando viene chiesto ai detentori di patrimoni la disponibilità ad investire in infrastrutture, questa si ferma al 35,8% (addirittura al 13,6% nel Sud e nelle Isole). Tra le priorità dei residenti in queste regioni, spiccano in primis asili, scuole e università, seguite da strade e autostrade.
Non si può certo trascurare la storia del nostro Paese, dove spesso i costi e i tempi di realizzazione delle infrastrutture sono lievitati ben oltre le previsioni. Ciò influisce negativamente sulla propensione all’investimento, che dai rispondenti al sondaggio viene imputata principalmente alla troppa corruzione (57%) e alla troppa burocrazia (54%).
Infine, ci si interroga spesso sull’impatto della cosiddetta “cultura NIMBY” nella realizzazione di opere infrastrutturali. L’acronimo deriva dall’inglese “Not In My Back Yard” (ossia “non nel mio cortile”) e si riferisce ai fenomeni di protesta da parte di una comunità locale verso la realizzazione di un’opera di rilevanza pubblica sul proprio territorio, opera a cui non si opporrebbe se venisse realizzata altrove.
Per verificarne l’impatto, è stato chiesto nel sondaggio di schierarsi a favore o contro la realizzazione di determinate opere sul proprio territorio. Le risposte variano molto in base alla tipologia di infrastruttura. Riscuotono successo (più del 65% di pareri favorevoli) opere come acquedotti, impianti eolici e fotovoltaici, parcheggi e ferrovie. Meno della metà sarebbe invece favorevole a veder costruire sul proprio territorio gasdotti, oleodotti, strade, autostrade, centrali elettriche e di smaltimento dei rifiuti urbani.
Idee chiare, certezze poche
Si chiude così lo spaccato di un Paese fortemente provato dagli anni della crisi. Le infrastrutture, riconosciute ampiamente come forma di investimento utile al rilancio dell’economia e allo sviluppo del Paese, non godono di ottima fama in una popolazione che comunque ne ha giovato parecchio. La scarsa fiducia verso la costruzione di nuove opere infrastrutturali è stata infatti alimentata dalla corruzione e dalla burocrazia eccessiva.
Queste due problematiche continuano a trovare riscontri in un Paese attraversato da due importanti tendenze: da un lato le spinte ambientaliste, che premono per la riconversione delle infrastrutture esistenti, e dall’altro l’impoverimento e la forte preoccupazione verso il futuro. Si tratta di un impoverimento che è tanto figlio di una dura crisi economica per la maggior parte delle famiglie italiane quanto causa di una scarsa propensione agli investimenti. Le tendenze fin qui delineate lasciano dunque spazio a sfide, dibattiti e previsioni che difficilmente passeranno in secondo piano nel dibattito pubblico degli anni a venire.
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