L’attenzione dei mass media e dei social media, in vista delle Presidenziali del novembre prossimo, è tutta concentrata sulle primarie democratiche e sul Super Tuesday di martedì scorso, in attesa di scoprire chi sarà lo sfidante di Donald Trump. Almeno in teoria, però, la sfida è aperta anche nel campo opposto. Parallelamente a quelle democratiche, infatti, si tengono anche le primarie del Partito Repubblicano. Primarie fin da subito parse molto meno combattute, con Trump a fare la voce grossa e i suoi competitor destinati ad una battaglia di “testimonianza”.
Quattro anni fa, lo scenario nel campo repubblicano era comprensibilmente molto diverso. Agli albori della campagna elettorale del 2016, infatti, la sfida interna al GOP somigliava molto a quella dei democratici di oggi, con ben 17 candidati divisi tra le varie correnti e sensibilità interne al partito. Ted Cruz e Ben Carson a rappresentare l’ala più prossima al Tea Party, Rick Santorum e Mike Huckabee quali portavoce della destra cristiana, Chris Christie e Jeb Bush, tra gli altri, a rappresentare l’ala più moderata. Tra gli outsider c’era però un certo Donald Trump, e il resto è storia.
Trump fa il cappotto
Alle primarie repubblicane del 2020 risulta vincitore il candidato che per primo conquista 1276 delegati. Alla luce dei risultati del Super Tuesday, Trump è già molto vicino a tale soglia: si trova infatti a quota 833. Il 3 marzo si è votato in 13 Stati: Alabama, Arkansas, California, Carolina del Nord, Colorado, Maine, Massachussets, Minnesota, Oklahoma, Tennessee, Texas, Utah e Vermont. Alle primarie di Minnesota e Maine Trump ha corso senza opposizione, e in tutti gli altri stati ha vinto di larghissima misura, ipotecando la nomination. Da qui alla convention nazionale, che si terrà dal 24 al 27 agosto a Charlotte, in Carolina del Nord, i prossimi appuntamenti elettorali sembrano essere poco più di una formalità.
Primarie repubblicane: la mappa del voto
La compattezza del GOP?
Oltre che all’enorme supporto popolare, Trump gode del supporto incondizionato da parte di quasi tutto l’establishment repubblicano, come ha dimostrato il recente voto sull’impeachment. Sulla carta, però, sussistono ragioni ideologiche anche profonde per sfidare Trump dall’interno. Come dimostra il grande numero di candidature di quattro anni fa, infatti, il pensiero repubblicano è tutt’altro che univoco, tanto che i vari cleavages di tipo confessionale ed ideologico generano tutt’ora un – indebolito – dibattito in seno ai Repubblicani. Addirittura, c’è chi arriva ad ipotizzare il possibile supporto di una parte dell’elettorato ad un candidato democratico moderato.
Alla domanda di una reporter circa il supporto o meno a candidati moderati quali Joe Biden, Michael Bloomberg, Pete Buttigieg o Amy Klobuchar (sebbene gli ultimi tre abbiano abbandonato la corsa alla nomination democratica nei giorni scorsi) le risposte di alcuni tra ex membri del Congresso, dipendenti ed attivisti del partito dell’Elefante sono state più che possibiliste. Una sola condizione: tutto fuorché Sanders o Warren. In caso di vittoria di un candidato “socialista”, infatti, secondo l’ex membro della Camera dei Rappresentanti per l’Illinois Ray LaHood sarebbe impensabile che iscritti e simpatizzanti repubblicani possano trovare asilo sul fronte politico opposto.
Seppur molto ristretto, esiste dunque un campo d’azione per l’opposizione interna a Trump. Ad oggi, gli sfidanti principali del Presidente in carica sono due: Bill Weld, libertario ed ex governatore del Massachussets, e Roque “Rocky” De la Fuente Guerra, eccentrico imprenditore di origini messicane, già candidato senza successo in innumerevoli tornate elettorali nazionali e federali passate.
I risultati ottenuti fin qui dagli sfidanti di Trump lasciano poco spazio ad interpretazioni: non sembrano ad oggi sussistere grossi ostacoli tra l’attuale presidente e la conquista dei 1276 delegati necessari per riottenere la nomination repubblicana. Da un lato, gli avversari democratici parlano già apertamente di Trump come lo sfidante designato sul quale concentrare tutti gli sforzi. Dall’altro, ci sono i repubblicani che cancellano le primarie in Stati come il South Carolina e la Virginia, ufficialmente per proteggere la nomination di Trump, in pratica perché di fatto l’esito è già scritto. Lo dimostra il cappotto di Trump al Super Tuesday repubblicano, con risultati quasi ovunque superiori al 90%.
Bill Weld resiste
Pur registrando un discreto entusiasmo iniziale sin dal caucus dell’Iowa, il destino della corsa pare a dir poco segnato. Se nel caso di Rocky de la Fuente parliamo di folklore o poco più, visto il personaggio eccentrico, avvezzo ai cambi di casacca e con una carriera politica costellata di sconfitte di ogni ordine e grado, diversa è la posizione di Bill Weld. Stoicamente, l’unico candidato in grado finora di sottrarre delegati al Presidente uscente (ne ha vinto uno in Iowa) non pare intenzionato a ritirarsi. Il programma politico del settantaquattrenne avvocato newyorkese è ambizioso e vede come priorità la lotta alla disparità di reddito, politiche a favore della sostenibilità e la promozione di un piano di abbattimento del debito pubblico. Le ragioni della sua donchisciottesca permanenza in campo sono spiegate dall’ex Governatore del Massachussets in un’intervista al magazine libertario Reason.com in cui Weld stesso allontana qualsiasi remota possibilità di vittoria. L’obiettivo, infatti, non è quello di compromettere la nomination di Trump alle primarie repubblicane, bensì la sua rielezione, facendo in modo che un segmento limitato – ma decisivo – dell’elettorato tradizionale repubblicano si allontani dalla piattaforma politica del presidente.
Nella stessa intervista Weld si dichiara disposto a supportare un candidato democratico centrista, come Biden, pur di votare contro Trump il 3 novembre. In caso di vittoria di Sanders, Weld aspetterebbe di conoscere il nome del candidato del Libertarian Party, per il quale egli stesso è stato candidato vice-presidente nel 2016, sempre in opposizione all’attuale presidente.
E ora?
Il Super Tuesday Repubblicano ci lascia l’impressione di un partito compatto a difesa del proprio leader. Come dimostrato timidamente dal voto di Mitt Romney a favore dell’impeachment di Trump, in dissenso rispetto al proprio gruppo, la realtà può essere diversa dai numeri. La strada dell’opposizione interna, tuttavia, non è ad oggi praticabile, come abbiamo visto, e dunque l’assenza di avversari credibili favorisce inevitabilmente Trump e la sua corsa in discesa verso la nomination.
Tuttavia, non è scontato che tutti gli iscritti ed eletti del Grand Old Party votino per Trump quest’ultimo il 3 novembre, soprattutto in presenza di un candidato democratico centrista a loro gradito. Sarà questo il motivo per cui Trump, sotto sotto, fa il tifo per Sanders?
C’è poi chi, come Weld, sostiene un partito al di fuori del duopolio democratici-repubblicani, come i Libertarians, e le prova tutte pur di sbarrare la strada all’acerrimo nemico. Passata la sbornia del Super Tuesday, insomma, non si prospetta un autunno facile per Trump. L’apparentemente assente dissenso interno al GOP, infatti, potrebbe manifestarsi nei prossimi mesi, in altre forme.
Commenta