“Campaigns are all about emotions”: la vittoria del senatore dell’Illinois fu descritta così dalla stratega democratica Liz Chadderdon in un editoriale per la storica rivista americana Campaigns and Elections, individuando nella narrazione la chiave della vittoria democratica. Fu infatti un elemento fondamentale, ma una campagna così epocale non può essere banalizzata e va letta nella sua complessità.
Facciamo però un passo indietro: Obama ha dovuto affrontare due durissime competizioni elettorali in un solo anno, e paradossalmente nella prima – la sfida contro Hillary Clinton alle primarie democratiche – partiva molto più sfavorito che nella sfida presidenziale contro McCain.
La sfida a Hillary Clinton
La Clinton, già first lady e senatrice dello stato New York, era sostenuta da larga parte dell’establishment. La sfida di Obama, giovane senatore dell’Illinois, partì molto in salita nel febbraio del 2007, con i sondaggi a certificare un vantaggio della Clinton di poco meno di 20 punti. L’inizio delle primarie, in Iowa, era previsto a inizio a 2008: dal lancio della propria campagna, per quasi un anno, Obama rimase stabile attorno al 25%, come possiamo vedere nel grafico sull’andamento del consenso dei candidati alle primarie elaborato da RealClearPolitics. Hillary Clinton, invece, proseguì la propria ascesa, arrivando a sfiorare il 50% delle intenzioni di voto, per poi scendere leggermente e stabilizzarsi attorno al 45%.
La strategia di Obama, tuttavia, prevedeva un grande sforzo di mobilitazione in Iowa, uno stato sul quale si concentrò moltissimo. La vittoria nel primo stato al voto fu il primo grande traino per il successo contro la Clinton, che potremmo riassumere strategicamente in pochi punti chiave:
- La straordinaria capacità del senatore dell’Illinois di capitalizzare al meglio il momentum acquisito con la vittoria in Iowa: quel giorno la sfida cambiò completamente;
- Il suo grande carisma e la capacità oratoria, entrambi amplificati con gli speech immediatamente successivi alla vittoria in Iowa e alla sconfitta nel New Hampshire, pronunciati in diretta televisiva nazionale.
- La polarizzazione della sfida tra clintoniani e anticlintoniani, che portò molti elettori dei candidati minori a convergere su Obama;
- Il ribaltamento messo in campo dopo la sconfitta nel New Hampshire: la Clinton vinse a sorpresa, ma Obama con un discorso straordinario (da cui nacque il celebre Yes we can) riuscì a ribaltare la narrazione di quel voto, tornando al centro della scena;
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- Una maggiore forza del messaggio. Sebbene entrambi avessero incentrato le proprie campagne su un messaggio di “cambiamento”, presentando claim simili (Ready for change lo slogan di Hillary, Change we can believe in la declinazione obamiana), la versione di Obama era estremamente più forte e significativa, perché la candidatura di un senatore nero, giovane, estremamente coinvolgente incarnava quel messaggio. Clinton e Obama giocarono sullo stesso terreno, un terreno favorevole al secondo.
Potremmo aggiungere molti altri argomenti che portarono alla vittoria di Obama, dalla sorprendente organizzazione dei comitati obamiani sino agli errori che caratterizzarono la strategia dell’ex first lady, condotta da Mark Penn, già stratega del marito, che rifiutò ad esempio di personalizzare la campagna, scelta ardita in questi anni. Ciononostante, gli elementi che hanno permesso la rimonta di Obama sono quelli precedentemente elencati: la capacità di gestire il momentum, il carisma, la capacità di ispirare le folle, la polarizzazione, la forza dei frame e delle narrazioni.
Presidenziali, una campagna diversa
La campagna contro McCain fu molto differente. Entrambi i candidati iniziarono adottando scelte simili, optando per due candidati alla Vicepresidenza che li coprissero sui propri limiti. Il punto di debolezza di Obama era la poca esperienza, soprattutto in politica estera, e il suo tallone d’Achille coincideva con un grande punto di forza di McCain: per questo motivo scelse come running mate Joe Biden, senatore da trentasei anni, per ben tre volte presidente della commissione esteri.
McCain invece, per cercare di dare una scossa a una campagna che sembrava non scaldare, scelse Sarah Palin, giovane governatrice dell’Alaska, che avrebbe avuto il compito di galvanizzare la base a destra del partito. La scelta di McCain, fortemente suggerita dallo strategist Steve Schmidt, inizialmente funzionò: dopo le due convention, il ticket repubblicano fece un enorme balzo avanti nei sondaggi, che durò poco.
La narrazione di Obama era inspiring, e lanciava un messaggio positivo di speranza (Hope fu lo slogan che accompagnò il precedente Change we can believe in) e di unità (una frase che amava ripetere recitava We are not a collection of red states and blue states, we are the United States). Questa narrazione era rafforzata da un eccellente uso dello storytelling: la sua emozionante storia personale diventava una chiave per parlare di valori e di programma. Tuttavia, per comprendere davvero il risultato elettorale non bisogna dimenticare degli elementi di scenario che contribuirono a favorire l’ascesa democratica, oltre ad alcuni importanti errori del senatore McCain.
Anzitutto, il crollo della Lehman Brothers e il contestuale inizio di una grave crisi economica globale, che colpì fortemente i repubblicani al governo. McCain subì moltissimo queste circostanze, visto che, per sua stessa ammissione, non era un grande esperto di economia. Il media consultant di Obama, Jim Margolis, produsse invece in quei giorni un efficace spot televisivo per sfruttare la crisi: trenta secondi di video in cui il senatore repubblicano ripeteva ininterrottamente “I fondamentali della nostra economia sono solidi”. Obama, dal canto suo, divulgò strategicamente una serie di foto con Warren Buffett, Paul Volcker e altri grandi esperti, per mostrarsi all’altezza del compito.
Come se non bastasse, la Vice di McCain, Sarah Palin, dopo l’iniziale successo mostrò tutta la sua inadeguatezza al ruolo, inanellando gaffes ad ogni apparizione televisiva. Steve Schmidt e McCain sapevano di correre un rischio con la sua scelta, e alla fine hanno pagato l’azzardo.
McCain, inoltre, non andò bene nei tre dibattiti, che secondo i sondaggi furono vinti da Obama: anzi, all’inizio si mostrò sprezzante nei confronti dell’avversario in più di un’occasione, chiamandolo “quello là” e inimicandosi una fetta non irrilevante di pubblico.
Ci sono poi altri, grandi meriti di Obama e del suo staff, tra i quali spiccano senza dubbio il chief strategist David Axelrod e il campaign manager David Plouffe. In primis, per rafforzare l’autorevolezza di Obama organizzarono un riuscitissimo tour in Europa e Medio Oriente, nel quale incontrò almeno una decina di capi di stato prima di concludere con un discorso a Berlino, davanti a più di duecentomila persone. McCain provò a ribaltare la percezione di questo colpaccio democratico ironizzando su “Obama rockstar”, divulgando lo spot “Celebrity”, ma l’operazione, pur ben confezionata, fallì.
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L’intera campagna ha dato grande attenzione al tema della creatività. Dall’alba contenuta nella O che caratterizzava il logo fino ai claim evocativi, dai poster artistici alle numerose star che hanno prestato la propria voce per canzoni di sostegno: tutto questo ha fatto di Obama una vera e propria “icona pop”, contrapposta a un uomo perbene, che tuttavia (nonostante una biografia epica da vero eroe) non aveva più l’appeal di un tempo sugli elettori.
Fu considerata una delle prime “campagne social”, sicuramente la prima campagna social di massa, con un uso intensivo di Facebook, utilizzato non solo per veicolare messaggi, ma per coinvolgere i potenziali sostenitori: il successo digitale della campagna arrivò al punto che alcuni media – sbagliando – identificarono i social come la grande arma della vittoria democratica. Durante la campagna, lo staff di Obama arrivò addirittura a coinvolgere uno dei fondatori di Facebook, Chris Hughes, per realizzare my.barackobama.com, un social network finalizzato per aggregare e organizzare i volontari: questo mostra l’enorme sensibilità dello staff democratico per le nuove tecnologie, utilizzate dal primo momento per l’organizzazione capillare dei militanti e la segmentazione degli elettori.
Strategicamente, il comitato democratico si mosse in modo molto saggio. Per raggiungere la maggioranza dei voti elettorali, fu organizzata una mobilitazione massiccia nei diciotto stati vinti da John Kerry quattro anni prima, per confermare la propria base. Inoltre, Obama vinse in stati chiave come Ohio e Florida, e grazie a una grande mobilitazione delle minoranze, anche in New Mexico, Nevada e Colorado.
A questo path tradizionale, si affiancò un investimento importante in tre stati del Sud che spiazzò gli strateghi repubblicani e portò alla conquista di North Carolina, Virginia, Florida. Fino alla fine, molti analisti ritennero improbabile una vittoria democratica in questi stati, in particolare in Virginia, dove il senatore dell’Illinois strappò ai repubblicani contee in cui Bush solo quattro anni prima aveva stravinto. Shane D’Aprile, web editor di Politics magazine, per riassumere l’esito elettorale disse che “per vincere, a Obama sarebbe bastato aumentare il margine nelle zone urbane degli stati chiave, restringendo il margine con i repubblicani nelle zone suburbane e rurali. Così non è stato: Obama ha vinto comodamente nelle contee vinte da George Bush jr solo quattro anni fa”.
La campagna di Obama, che arrivò ad abbattere ogni record di fundraising raggiunto fino a quel momento, si concluse con un investimento enorme in uno spot televisivo di mezz’ora in prima serata il mercoledì prima del voto su CBS, NBC, Fox News e Univision: video elettorali di una simile durata non si vedevano dai tempi di Ross Perot e, come diversi strateghi ebbero ad obiettare, si tratta di una tipologia di comunicazione più adatta all’inizio di una campagna elettorale, per incidere sul proprio posizionamento, che per la mobilitazione da gran finale. Tuttavia, fu sicuramente un finale scenico e teatrale per una delle più grandi campagne elettorali di sempre.
P.s. Uno dei momenti più alti di quella tornata elettorale avvenne subito dopo il voto, con il concession speech di John McCain, che bloccò i propri supporter che fischiavano e urlavano contro Barack Obama. Li zittì fermamente: aveva perso le elezioni, ma un uomo con la sua storia straordinaria non poteva perdere l’onore.
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Bibliografia, sitografia e filmografia per approfondire
- The Audacity to Win: The Inside Story and Lessons of Barack Obama’s Historic Victory, David Plouffe, Viking Pr, 2009.
- Game Change: Obama and the Clintons, McCain and Palin, and the race of a lifetime, John Heilemann, Mark Halperin, HarperCollins, 2010.
- By the Numbers: Obama’s win, Shane d’Aprile, in campaignsandelections.com, novembre 2008.
- Game Change (film), 2012.
A me pare ben approfondito il tema di un successo come quello di Obama, così travolgente ed inatteso, che è stato identificato come la rottura del classico sistema delle primarie in America. A favore di una crescita dell’interesse politico da parte di fasce sociali fino ad allora scarsamente coinvolte ed interessate e dalla crescita dei social.
Certo dalla sua Obama aveva la classe innata, l’intuito e una passione autentica per gli Usa che veniva percepita come una svolta e insieme una garanzia. L’uomo giovane ma affidabile.
Grazie Giovanni! Sei diventato un grande nel tuo settore, complimenti ♀️