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The Upper House: Oregon, e ora cosa c’entra Lady D?

Quinto appuntamento con la rubrica curata da Luciana Grosso e dedicata alle sfide più delicate e avvincenti delle elezioni senatoriali di novembre

Il prossimo 3 novembre, negli Stati Uniti, non si vota solo per la Presidenza. Si vota anche per 35 seggi al Senato e per il rinnovo completo della Camera dei Rappresentanti. La cosa non è secondaria, anzi: senza un Parlamento dalla sua parte, il Presidente può incontrare grandi difficoltà nel suo mandato.

La gara più serrata è al Senato perché lì i numeri sono molto ristretti: ogni Stato dispone di due senatori indipendentemente dalla popolazione, per un totale di 100 Senatori. Attenzione però: il Senato si rinnova solo per un terzo, perché si vota ogni due anni e ogni Senatore rimane in carica sei anni.

In queste settimane Luciana Grosso ci racconta allora le sfide più delicate, avvincenti e cruciali per diventare o restare Senatore degli Stati Uniti e, di fatto, avere nelle mani il destino di milioni di persone.

Oggi ci spostiamo in Oregon, quinta tappa del nostro viaggio oltreoceano.

Se avete simpatie democratiche, l’Oregon è lo stato che fa per voi. Blu, senza nessun dubbio, nessuna incertezza, nessuna esitazione, nessuno swing.

Democratico e basta.

Dai tempi di Ronald Reagan, in Oregon, nessun candidato repubblicano ha vinto le presidenziali. Al senato, in realtà, le cose sono un po’ diverse e per lungo tempo c’è stato equilibrio tra i partiti, con senatori sia repubblicani che democratici. Da una decina di anni a questa parte, però, i senatori sono entrambi stabilmente democratici e verosimilmente le cose non cambieranno a novembre.

I sondaggi, per questa elezione, sia presidenziale sia per il senato, sembrano lasciare pochi spazi ai dubbi. Qui vincerà Joe Biden e qui, per il senato, sarà confermato Jeff Merkley, il senatore democratico uscente: un tipo molto gagliardo (ha corso tre volte l’Ironman), molto di sinistra (il suo cuore batte per Bernie Sanders) e molto popolare (ha un passato di attivista per il diritto alla casa). La sfidante repubblicana, Jo Rae Perkins, invece è una misconosciuta consulente finanziaria che più volte ha provato a entrare in politica ma senza mai alcun successo vero. Anzi: si è candidata più volte alle primarie repubblicane, sia per il congresso che per il senato, ma, fino a quest’anno, non aveva mai vinto. Quest’anno però, un po’ a sorpresa, ce l’ha fatta e sarà dunque lei la candidata repubblicana al Senato. Le sue possibilità di vincere il seggio, però, sono parecchio scarse: un po’ perché lo stato è democratico, un po’ perché lei non è una candidata particolarmente carismatica, un po’ perchè il suo avversario democratico è molto forte, l’esito del voto appare abbastanza scontato.

 

E allora perchè stiamo parlando dell’Oregon?

Perchè qui, in Oregon, lo stato della Nike, degli hipster di Portland e della comune hippie di Wild Wild Country (a proposito: l’avete visto?), Jo Rae Perkins, in qualche modo, farà la storia. Anzi, l’ha già fatta. Non le serve vincere le elezioni per farlo. Ma prima di parlare di lei, è meglio parlare del gruppo di cui porta avanti le idee e a cui si rifà esplicitamente: si chiama QAnon. Ne avete mai sentito parlare?

 

Where We Go One We Go all: la teoria di Q

QAnon, spesso noto con la sola indicazione Q (dal nome dell’account anonimo da cui ha preso a circolare sui social) è, in estrema sintesi, una teoria del complotto. Poco male: ce ne sono tante in giro, e ognuno, anche il più insospettabile, ha la sua a cui, in fondo al cuore, senza dirlo a nessuno, un po’ crede (alzi la mano chi non spera di incontrare il vecchio Elvis, da qualche parte).

Ma Q è diversa dalle altre. Q è così ampia ed estesa da comprendere praticamente tutto quello che succede nel mondo, dall’elezione di Trump al CoVid, dalla morte di Lady D al SexGate di Bill Clinton. Tutto si tiene nel mondo di Q.

In realtà – perdonateci la franchezza – non si tiene proprio niente, e la forza di Q (come quella di quasi ogni teoria del complotto) è che non basandosi, in nessun modo, su fatti, è impossibile da disinnescare, smentire, confutare. Perché se una cosa non si basa sui fatti, non si può contraddire con altri fatti. Non funziona. Segue binari tutti suoi. Parla una lingua tutta sua. Ha logiche che o ci credi o non ci credi.

Q, tra le teorie del complotto, è una di quelle che ha avuto più successo. Gira e circola e si diffonde parecchio sui social della destra populista (la così detta Alt-Right), più di quanto non faccia tra le persone vere (secondo Pew Research Center il 76% degli americani non ne ha mai sentito parlare). Questa però non è una valida ragione per sottovalutarne la forza e l’impatto. Le cose che vivono sui social (a parte qualche flame da nerd su Twitter) non vivono mai davvero solo sui social: trovano sempre il modo per sbarcare nella vita vera e influenzarne, seppur di sguincio, le dinamiche concrete. Siamo nel 2020, e a questo punto, dovremmo aver chiaro che non esiste più soluzione di continuità tra account e persone, tra post e dichiarazioni, tra meme e realtà.

 

Cosa dice la teoria di Q

Il senso di Q, se vi piace questo genere di cose, è il seguente: nel mondo sarebbe in atto un terribile e orrendo e disgustoso complotto ordito da un gruppo di pedofili satanisti guidati da Hillary Clinton, George Soros, e Bill Gates. Costoro vorrebbero governare il mondo (e in parte già lo fanno) in nome e per conto di Satana in persona. E per portare a compimento i loro sporchi affari sono pronti a commettere le peggiori nefandezze ed empietà (riti satanici, sacrifici umani, pandemie create in laboratori ecc): il loro scopo, in sintesi, è trasformare il mondo in una prateria sotto il loro controllo e, nella quale, il male possa scorrazzare libero, le loro malefatte restare impunite o, addirittura, essere considerate legittime e giuste.

Secondo la teoria, al servizio di questi tre alfieri del male (Clinton, Soros, Gates) ci sarebbero una serie di burocrati e uomini d’apparato (il famoso Deep State)  che, non visti ma potentissimi, lavorano negli uffici, nei ministeri, nelle istituzioni e cercano in tutti i modi di agevolare il loro disegno malvagio.

Il loro progetto stava per compiersi nel 2016, con la quasi vittoria di Hillary Clinton alla Presidenza. Ma all’ultimo minuto, informato del complotto, sarebbe arrivato Donald Trump, uomo onesto e di sani valori, intenzionato, eroico, solo a salvare il mondo. In pratica, secondo Q, Trump è l’ultimo ostacolo tra noi persone normali e l’abisso delle tenebre. Prima di lui, a ricoprire il ruolo di scudo contro il male, c’era la principessa Diana Spencer, che poi, proprio per questo, è stata barbaramente uccisa. (In realtà, a questo punto, le teorie divergono: secondo alcuni Lady D sarebbe viva e vegeta e starebbe lottando al fianco di Trump, anzi, sarebbe proprio lei l’anonimo Q). Alla morte (o alla scomparsa, dipende) di Lady D, il mondo si è ritrovato solo, in balia di guerre, crisi economiche, terrorismo e perdizione morale. Fino all’arrivo di Trump che si sarebbe offerto volontario per difendere tutti noi dall’abisso di malvagità che ci si apriva dinnanzi. Al fianco di Trump, suo insospettabile alleato, ci sarebbe  stato, per mesi, niente meno che Robert Mueller III, il procuratore speciale che, in teoria e solo per confondere le acque, era stato incaricato di indagare sul RussiaGate, ma che, in realtà e senza dirlo a nessuno, aveva avuto l’incarico di scandagliare gli uffici del governo in cerca di complici del piano di Clinton & co. I due, Trump e Mueller, fianco a fianco, avrebbero lottato insieme per niente di meno che la salvezza del mondo.

Salvezza del mondo che (come nei culti millenaristici e come nei film degli Avengers)  è previsto arrivi. Solo che non si sa quando. E solo che (come nei culti millenaristici e come nei film degli Avengers) occorre che vada peggio prima che possa andare meglio. Il giorno della salvezza e dalla liberazione da tutto questo male, comunque, prima o poi arriverà: si chiama “The Storm” e sarà il giorno in cui, in tutto il mondo, ci saranno migliaia di arresti e tutti i malvagi artefici del piano per il trionfo del male saranno incarcerati e portati a Guantanamo. Il risultato saranno, finalmente, la pace e la felicità sulla Terra. Questo è come il mondo si spiega secondo Q e i suoi sostenitori.

Ma il punto, ora, non è quanto di vero o verosimile o sensato ci sia in questa teoria (Q è stata inserita dall FBI tra i possibili pericoli per la stabilità nazionale). Il punto è quanti voti possa raccogliere se arriva alla politica.

 

I politici e Q

Come potrete facilmente immaginare, Q ha trovato molta popolarità tra le fila del partito repubblicano americano, soprattutto tra le frange che con più vigore sostengono Donald Trump. In realtà, nessuno tra i vertici del Partito Repubblicano ha apertamente appoggiato la teoria, ma diciamo che in molti non la hanno esplicitamente osteggiata e qualcosa, delle ricostruzioni di Q, anche molto in alto, circola, prende piede, viene fatto filtrare, anche se forse solo per ragioni di propaganda più che per reale convincimento.

E qui arriva Jo Rae Perkins.

Perkins è la più alta in grado, nel suo ruolo di vincitrice di primarie e di candidata al senato, a sostenere con convinzione le teorie di Q, tanto che ha concluso il suo discorso di vittoria delle primarie con il motto degli adepti (possiamo chiamarli così?) della teoria: “Where We Go One We Go all”.

Ma non è tutto: secondo il sito Media Matters sarebbero in tutto 59 gli esponenti (spesso di secondo piano) del Partito Repubblicano che hanno dichiarato in più occasioni di credere che Q offra una lettura verosimile del mondo.

Anche sui social (e dove sennò?) Q va alla grande. Per il New York Times sarebbero circa 23 mila gli account che nel nome e nei contenuti rimandano alla teoria di Q (se siete curiosi li riconoscete, oltre che da QAnon nel nome anche da hashtag come #redpill o #WWG1WGA, acronimo del motto di Q o #TheGreatAwakening). Di questi account, secondo New York Times, almeno 500, compaiono nel feed del presidente Donald Trump. E non di rado trovano la sua approvazione e il suo retweet, che si traduce in un endorsement e in pubblicità.

 

La campagna di Jo Rae Perkins

Jo Rae Perkins, lo abbiamo già detto, ma è bene ripeterlo, al momento non ha quasi nessuna possibilità di vincere l’Oregon; è un candidata improbabile, con poca esperienza, pochissimo carisma e per di più nota per il fatto di sostenere Q, cosa che piace molto a quelli che credono alla teoria del complotto, ma che la fa sembrare una squilibrata ai democratici e ai repubblicani moderati.

A ben guardare, che Jo Rae Perkins vinca o meno in Oregon importa poco. E probabilmente importa poco anche a lei. Perché lei, la sua battaglia, le primarie, l’ha già vinta con il 49,8%. E per di più lo ha fatto con la benedizione dei vertici del partito. Candidati contro di lei c’erano due altri repubblicani, entrambi su posizioni fortemente conservatrici e pro-Trump, Paul Romero e Robert Schwartz, passati però senza lasciare traccia.

Il fatto che Perkins abbia vinto le primarie, basandosi quasi completamente sul suo messaggio identitario, sul suo sostegno a Q è un segnale non da poco. Lascia intuire che, man mano che la politica si spinge verso i due estremi (in America sta succedendo in modo inesorabile da almeno 20 anni) le parole e la loro aderenza alla realtà e ai fatti provabili e tangibili stanno smettendo di avere peso, a vantaggio di una cosa più forte e non contraddicibile, che è l’identità. Jo Rae Perkins, con il suo scarno curriculum politico ma il suo forte richiamo idenditario, incarna benissimo questa evoluzione della politica e ci lascia sbirciare uno spoiler di come potrebbe essere il futuro,  in cui a contare non sarà più quel che si vuole, ma quel che si è. Probabilmente Jo Rae Perkins perderà, Donald Trump non si sa. Ma le ragioni, le divisioni, il bisogno di credere in qualcosa e qualcuno, che li hanno portati a essere Presidente e candidata resteranno ancora a lungo, e troveranno, altrove e in altri leader, la loro rappresentanza, la loro voce. Lasceranno il segno e, in qualche modo, passeranno alla storia.

E con loro Jo Rae Perkins, la prima candidata al Senato che crede che Hillary Clinton abbia ucciso Lady Diana.

Luciana Grosso

Giornalista di esteri, ha passato le notti dell’adolescenza a inseguire ‘The West Wing’ tra i canali in chiaro degli anni ‘90. Scrive (soprattutto di USA e di UE) per Il Foglio, Linkiesta, Business Insider, Il Venerdì di Repubblica. Cura una newsletter settimanale sull’Unione Europea.

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