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The Upper House: Iowa, Eva contro Eva

Sesto appuntamento con la rubrica curata da Luciana Grosso e dedicata alle sfide più delicate e avvincenti delle elezioni senatoriali di novembre

Il prossimo 3 novembre, negli Stati Uniti, non si vota solo per la Presidenza. Si vota anche per 35 seggi al Senato e per il rinnovo completo della Camera dei Rappresentanti. La cosa non è secondaria, anzi: senza un Parlamento dalla sua parte, il Presidente può incontrare grandi difficoltà nel suo mandato.

La gara più serrata è al Senato perché lì i numeri sono molto ristretti: ogni Stato dispone di due senatori indipendentemente dalla popolazione, per un totale di 100 Senatori. Attenzione però: il Senato si rinnova solo per un terzo, perché si vota ogni due anni e ogni Senatore rimane in carica sei anni.

In queste settimane Luciana Grosso ci racconta allora le sfide più delicate, avvincenti e cruciali per diventare o restare Senatore degli Stati Uniti e, di fatto, avere nelle mani il destino di milioni di persone.

Oggi ci spostiamo in Iowa, sesta tappa del nostro viaggio oltreoceano.

“I come from Des Moines. Somebody had to”. “Sono nato a Des Moines in Iowa. Qualcuno doveva pur farlo”. Comincia così “America Perduta” di Bill Bryson, uno dei libri più belli e divertenti scritti sugli Stati Uniti. Non è un romanzo, ma un lungo reportage di viaggio lungo le strade dell’America, appunto, ‘perduta’, cioè quella che non si vede, che non si conosce, che non si racconta. Quella che non ha panorami, né storie, né epica, né oceano, né grattacieli, né canyon. Quella che non ha diritto di residenza nei sogni (quella è la California) nei film (quella è New York) e neppure nelle leggende (quello è il West). Un’America che anche se esiste eccome, non si fila nessuno. Anche perché non c’è niente che valga la pena filarsi.

L’Iowa, il posto in cui Bryson è nato e dal quale inizia il suo viaggio a zonzo per gli Stati Uniti, è forse lo stato simbolo di questa America senza niente: uno staterello, grande ma poco popoloso, abbastanza povero, paesaggisticamente irrilevante e con una capitale, Des Moines, che assomiglia a una specie di paese del quale le uniche cose da segnalare sono il campus della Drake University,  un parco divertimenti, un paio di buoni ristoranti di hamburger e un bellissimo negozio di magliette. Per il resto, poco altro.  A chi scrive, il niente di Des Moines piace assai, ma insomma… deve essere un po’ il vostro genere. L’Iowa, per dire quanto vuoto sia il niente che lo abita, è famoso nel mondo solo per cinque cose: i Ponti di Madison County (nel senso di film, non nel senso di ponti, che ci sono ma hanno poco per cui essere famosi); la casa natale di John Wayne, la soia (gran parte della guerra commerciale con la Cina ci gira intorno), i maiali e i caucus delle primarie. 

Niente altro. Non c’è una ragione al mondo per cui venire qui se non ci siete nati, non ci abita il vostro migliore amico o non siete appassionati di politica americana.

In quest’ultimo caso, se passate dall’Iowa nei giorni delle primarie di repubblicani e democratici, vi sembrerà di essere alle giostre o, catapultati dentro una puntata di West Wing. Che poi, in fondo,  è un po’ la stessa cosa. Qui,  in questo stato dimenticato da tutti, per qualche settimana, si concentra tutta, ma proprio tutta, la politica americana ai suoi livelli più alti. Qui convergono tutti i leader del paese, per tirare la volata a questo o quel candidato. Qui arrivano tutti i candidati alle primarie, anche quelli che poi si perdono per strada (come Joe Biden nel 2008, o Jeb Bush nel 2016). Qui può capitare di farsi un selfie con John Kerry o con Elisabeth Warren. Infine, qui, in genere si sceglie lo sfidante delle primarie perché, leggenda vuole che chi vince in Iowa poi vinca la nomination. In realtà non vero, ma questa è l’unica vera leggenda sull’Iowa, non vorrete mica togliergliela?

Non solo primarie: cosa votano i signori dell’Iowa?

Le primarie, per definizione, sono elezioni chiuse: i repubblicani votano alle primarie repubblicane, i democratici a quelle democratiche. E la faccenda finisce lì. Ma cosa votano le persone dell’Iowa, tutte insieme, quando si tratta  delle elezioni vere?

La risposta è, come spesso nella vita, dipende. L’Iowa è uno stato mediamente conservatore, ma tende ad essere swing, ossia uno stato che oscilla, che sceglie di volta in volta e sempre con margini risicatissimi, e sul quale nessuno dei due partiti principali può fare cieco affidamento. Qui,  per dire, hanno vinto sia Nixon che Lyndon Johnson; sia Reagan che Clinton; sia Obama (due volte) che Trump. Anche al senato c’è un certo equilibrio, una certa alternanza.

Ad oggi, lo stato è rappresentato da due repubblicani: uno si chiama Chuck Grassley, occupa il seggio dal 1980,  è un repubblicano relativamente moderato che ha incarnato con precisione il suo ruolo di protettore degli interessi dell’Iowa, visto che negli anni si è occupato soprattutto di agricoltura, il tema che al suo stato sta più a cuore. L’altra si chiama Joni Ernst e ha vinto le elezioni da completa outsider nel 2014 (prendendo il posto di Tom Harkin, un anziano senatore democratico che aveva rappresentato lo stato per 30 anni, dal 1984 al 2014), ed è tutto tranne che moderata. Anzi.

 

“Voglio farli urlare”

La storia della senatrice Ernst merita di essere raccontata.

Fino al 2014 nessuno o quasi ne aveva mai sentito parlare, almeno al di fuori dell’Iowa. Era un veterana della Prima Guerra del Golfo e aveva ricoperto qualche carica politica locale, ma poca roba. Poi arrivò la decisione di candidarsi al senato al posto del dimissionario Tom Harkin e, con essa, la celebrità. A rendere famosa Ernst non era stato, ovviamente, il fatto di essersi candidata (centinaia di persone lo fanno, ogni due anni) ma la pubblicità elettorale con cui lanciò la sua campagna.

Lo spot era discutibile ma azzeccato. Tanto per cominciare, era ambientato in una porcilaia. Lì, Ernst, in stivaloni di gomma e camicia a scacchi, diceva: “Sono cresciuta in una fattoria dell’Iowa, fin da piccola ho imparato a castrare i maiali. Per questo sono la persona adatta per Washington. Perchè so tagliare quello che non serve. Non importa quanto urlino quelli che non vogliono. Io taglio. Mandami a Washington e facciamo urlare quei maiali”.

 

 

Chiaro no? Il messaggio funzionò, non solo perché Ernst vinse (con il 51%) ma anche perché diede la misura di come sarebbe stata la comunicazione politica di lì a poco.

Eravamo ancora nel 2014: Barack Obama era presidente, la Brexit poco più di un ipotetico referendum e Donald Trump solo un eccentrico miliardario newyorkese. Eppure Ernst aveva capito, prima di tanti altri, che c’era in giro un non definito malcontento, una diffidenza per grisaglie e governanti (le cosiddette élite) che bruciava sotto le braci e che non aveva ancora trovato voci, parole e partiti per esprimersi e che cercava colpevoli e vendetta prima ancora che giustizia e riforme. A quella rabbia ancora informe Ernst, prima di tutti, aveva saputo dare voce. La sua bucolica pubblicità elettorale conteneva tre messaggi forti in uno. Primo: a Washington sono tutti maiali; secondo: io, armata di buon senso contadino posso tagliare gli sprechi; terzo: io posso farli soffrire. Una versione più forte e violenta del nostro “aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno”.

Tagli? Pochi. Conservatorismo? Tanto

Una volta diventata senatrice, relativamente a sopresa (quel seggio era stato democratico per trent’anni e Ernst era una perfetta sconosciuta) la ex allevatrice ed ex soldatessa si è fatta notare. Non tanto per la sua volontà/capacità di castigare gli sprechi della politica americana, quanto per il suo formidabile conservatorismo. E’ a quello, più che alle politiche di bilancio che Ernst si è dedicata: per esempio ha sostenuto un emendamento che riconosce personalità giuridica a tutti i feti e che, se andasse in porto, potrebbe rendere illegali l’aborto in tutti gli stati equiparandolo all’omicidio; ha chiesto, nel 2015, l’impeachment per Obama, accusandolo di violare la costituzione e di essere nato in Africa; ha proposto un emendamento alla costituzione per vietare il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Poi una volta diventato presidente Trump, ha votato sempre a favore delle sue leggi e sempre contro ogni proposta democratica.

Lo stesso impegno invece non si è visto sui temi che erano stati il suo cavallo di battaglia, le politiche di bilancio e gli sprechi.  Non solo perché gli unici tagli per Ernst si è veramente battuta sono stati quelli a MediCare e SocialCare e perché ha dedicato alle questioni di bilancio solo il 4% della sua attività politica, ma anche perché, in generale, la cosa è finita un po’ in cavalleria. Nei primi mesi del suo mandato Ernst aveva istituito uno Squeal Award (squeal è il verbo urlare declinato però per gli animali) con il quale, ogni mese, avrebbe dovuto ‘premiare’ lo spreco più vergognoso di Washington. Ma poi, visto che mietere tagli non è così semplice come sembra, l’idea è stata abbandonata. Anzi. Negli ultimi mesi anche Ernst è finita in una complicata faccenda di fondi neri, per cui di recente, sta preferendo parlare d’altro.

La sfidante di cui nessuno ha mai sentito parlare

Contro Ernst i democratici candideranno Theresa Greenfield, una specie di nemesi di Ernst. Come se ne fosse la fotografia in negativo.Anche Greenfiled, come Ernst, si candida da quasi perfetta sconosciuta (secondo un sondaggio del Des Moines Register il 73% dei residenti dell’Iowa non ha un’opinione sul suo conto). Anche Greenfield, come Ernst, ha girato il suo primo spot elettorale nella fattoria di famiglia (anche  se non ha fornito dettagli circa la sua esperienza nella castrazione di suini). Anche Greenfield, come Ernst, dice di essere una vera “Iowan” intenzionata a portare a Washington un po’ di sana saggezza  e frugalità contadina. Anche Greenfield, come Ernst, dice che ci sono abusi e sprechi, da parte di entrambi i partiti, che intende punire e tagliare. Anche Greenfield, come Ernst, dice di essere una politica che con la politica non c’entra niente. E soprattutto, anche Greenfield, come Ernst, ha annusato l’aria e ha capito alcune cose prima degli altri. Per esempio ha capito che il voto di rabbia, il voto di pancia, è spesso un voto liquido; un voto difficilmente sceglie l’originale ma, al contrario, segue l’ultimo che ha parlato; un voto che non sceglie mai (o quasi) l’usato garantito e che tra la via vecchia e quella nuova, sceglie sempre la seconda. Anche Greenfield, come Ernst ha capito che in giro ci sono rabbia, insofferenza e malcontento. Ma  ha capito, prima  e meglio di Ernst, che ora sul banco degli imputati non siedono più gli uomini in grisaglia, ma lei stessa, la ex castratrice di maiali che voleva fare strame del sistema e che poi ne è diventata parte. E soprattutto Greenfield, più e come Ernst, ha capito che, di questi tempi, i ruoli di maiale e di castratrice sono parecchio interscambiabili. E basta un niente per trovarsi dalla parte sbagliata del recinto.

 

 

Luciana Grosso

Giornalista di esteri, ha passato le notti dell’adolescenza a inseguire ‘The West Wing’ tra i canali in chiaro degli anni ‘90. Scrive (soprattutto di USA e di UE) per Il Foglio, Linkiesta, Business Insider, Il Venerdì di Repubblica. Cura una newsletter settimanale sull’Unione Europea.

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