La maggior parte dei modelli previsionali e dei sondaggi per le elezioni americane di novembre attribuisce al candidato democratico Joe Biden la maggiore probabilità di vincere la maggioranza dei voti espressi – il cosiddetto voto popolare. Nelle tante simulazioni (come quelle del sito specializzato FiveThirtyEight) possiamo però notare come all’interno dell’Electoral College, composto dai 538 grandi elettori che formalmente eleggono il Presidente degli Stati Uniti, si possa presentare uno scenario che, per quanto remoto e improbabile, merita un approfondimento.
Stiamo parlando del caso in cui nessun candidato presidenziale riesca a vincere un numero sufficiente di stati tale da garantirgli la maggioranza dei grandi elettori, pari ad almeno 270. Lo scenario di cui cui tratteremo in questo articolo sarà in particolare quello di un pareggio (269-269) tra i due candidati principali. Tuttavia, esistono almeno altre due vie che potrebbero portare al mancato raggiungimento di 270 grandi elettori da parte di un candidato: ci possono infatti essere dei faithless electors, cioè dei grandi elettori che non votano per il ticket presidenziale per cui sono stati eletti (nel 2016 furono 7), oppure ancora – ipotesi molto remota nelle presidenziali di novembre – ci possono essere candidati di partiti diversi da quello Repubblicano e da quello Democratico in grado di vincere in qualche stato.
Come funziona l’Electoral College?
Prima di provare a capire se l’eventualità di un pareggio possa concretizzarsi il prossimo novembre, diamo uno sguardo al meccanismo di elezione dei grandi elettori e alla sua storia.
I cittadini americani eleggono in via indiretta il Presidente e il Vicepresidente. Nei 50 stati e a Washington D.C. ogni 4 anni i cittadini eleggono 538 grandi elettori. Nella maggior parte degli stati i grandi elettori, che differiscono in numero per ciascuno stato a seconda della rappresentanza alla Camera e al Senato, vengono assegnati in blocco al ticket (cioè al candidato Presidente e al candidato Vicepresidente) che riceve la maggioranza relativa dei voti in quello stato, con il famoso sistema winner-takes-all. Il Maine e il Nebraska sono i soli stati che fanno eccezione, perché lì il bottino dei grandi elettori viene anche diviso tra i vincitori dei singoli distretti congressuali.
I grandi elettori del partito vincitore si incontrano poi nelle rispettive capitali statali il lunedì dopo il secondo mercoledì di dicembre (il 14 dicembre, quest’anno), momento in cui esprimono i loro due voti – uno per il Presidente e l’altro per il Vicepresidente. Il 3 gennaio il nuovo Congresso, eletto in concomitanza con il voto presidenziale di novembre, si insedia ed effettua lo scrutinio dei voti espressi dai grandi elettori. Dopodichè, il 20 gennaio il nuovo Presidente si insedia alla Casa Bianca.
Uno sguardo al passato
Il calendario relativo all’elezione presidenziale non è rimasto invariato nel tempo. Con esso anche le regole e i meccanismi legislativi si sono evoluti e sono stati tra i più emendati all’interno della Costituzione, per fare fronte a scontri politici e impasse costituzionali.
Inizialmente, i grandi elettori votavano per due candidati, senza distinguere tra il voto per il Presidente e quello per il Vice. Il vincitore della maggioranza dei voti espressi avrebbe vinto la presidenza, mentre il secondo arrivato sarebbe diventato Vicepresidente. Nel 1796, nella terza elezione presidenziale, questo sistema portò alla vittoria di John Adams, mentre Thomas Jefferson divenne vicepresidente, nonostante l’appartenenza a due schieramenti diversi e l’opposizione personale fra i due.
Jefferson sfruttò il suo ruolo per ripresentarsi alle convulse elezioni del 1800. Per la prima volta entrambi i partiti, quello democratico-repubblicano di Jefferson e quello federalista del Presidente uscente John Adams, si presentarono ciascuno con un proprio candidato vicepresidente. In questo modo, con le regole allora in vigore, conquistando i primi due posti nella conta dei grandi elettori, Presidente e Vice sarebbero stati dello stesso partito. Le cose andarono storto quando, pur battendo il partito dei federalisti di John Adams, Jefferson si ritrovò in un inedito pareggio nel Collegio elettorale con il suo compagno di partito Aaron Burr. In base alla Costituzione, toccava dunque alla Camera scegliere il nuovo Presidente: i rappresentanti alla Camera avrebbero però dovuto votare non individualmente ma in delegazioni divise per Stato, e la vittoria sarebbe andata a chi avesse ottenuto la maggioranza semplice degli stati (che allora erano soltanto 16). Dopo sei giorni di dibattito e 36 scrutini, Jefferson divenne il terzo Presidente degli Stati Uniti, ma le cose cambiarono presto.
Il 12° emendamento alla Costituzione, ratificato in tempo per le elezioni del 1804, stabiliva che gli elettori avrebbero ora espresso due voti separati: uno per il Presidente e l’altro per il Vice. La legge così modificata prevede che, se nessun candidato ottiene la maggioranza dei grandi elettori, la presidenza sia ancora oggetto di un voto della Camera dei rappresentanti, mentre il Vicepresidente viene eletto dal Senato. Si apre così la prospettiva per la quale Presidente e Vice, a seconda delle maggioranze nei due rami del Congresso, potrebbero addirittura appartenere a due partiti diversi. Dall’entrata in vigore del 12° emendamento comunque, solo nel 1824 la Camera si trovò nuovamente a decidere un’elezione presidenziale, dal momento che in quell’occasione nessuno dei quattro candidati riuscì ad ottenere la maggioranza nel Collegio elettorale.
Nel 1933, sempre sulla scorta delle possibili difficoltà nelle transizioni presidenziali, la ratifica del 20° emendamento sposta invece la data di insediamento del nuovo Presidente dal 4 marzo al 20 gennaio e l’inizio dell’anno legislativo dal primo lunedì di dicembre al 3 gennaio. In questo modo, in caso di mancata elezione da parte dell’Electoral College, sarebbe il nuovo Congresso a risolvere lo stallo, e non quello uscente. L’emendamento inoltre afferma che se al 20 gennaio non è stato ancora eletto un Presidente dal Collegio elettorale, il Vicepresidente eletto può assumere l’incarico presidenziale fino alla nomina di un Presidente. La Camera ha però anche la facoltà di eleggere il Presidente se i grandi elettori non si esprimono entro il giorno dell’inaugurazione.
Lo scenario per il 2020
Nelle elezioni di quest’anno, che si preannunciano combattute in molti swing states nonostante il vantaggio di Biden nei sondaggi, diverse combinazioni nella somma dei grandi elettori di diversi stati potrebbero portare ad un pareggio (269-269), spostando così l’elezione presidenziale alla Camera.
Con la mappa interattiva del sito 270towin, mantenendo come contendibili fra Trump e Biden tutti gli Stati che nel 2016 vennero decisi con un margine di consensi inferiore al 5%, le possibili combinazioni di Stati per avere un pareggio nell’Electoral College sarebbero 64. Se invece si attribuiscono ad esempio la Florida a Trump e il Minnesota a Biden, le combinazioni si riducono a 21. Oltre questo esercizio teorico, che non permette di includere nelle simulazioni l’andamento della campagna elettorale nel resto del Paese, il dato da tenere a mente è sicuramente quello relativo alla maggioranza all’interno della Camera.
In caso di pareggio, infatti, ad eleggere il nuovo Presidente saranno le delegazioni statali alla Camera, e non i singoli deputati. Anche in questo caso, possiamo fare soltanto delle ipotesi su come andrebbero le cose, dal momento che a votare sarebbe la nuova Camera, che si insedierà a gennaio 2021, dopo le elezioni di novembre. Con la conformazione attuale della Camera, il Partito Repubblicano ha la maggioranza delle delegazioni statali, 26 a 23, appena sopra la maggioranza richiesta per poter eleggere il Presidente. Tutti i 435 seggi della Camera dovranno però essere per l’appunto rinnovati a novembre: secondo le previsioni, sebbene i Democratici potranno mantenere il controllo effettivo della Camera, a livello di delegazioni statali la maggioranza verosimilmente resterà in mano ai Repubblicani.
Al Senato invece, chiamato all’elezione del Vicepresidente in caso di pareggio nell’Electoral College, dei 100 seggi totali 35 saranno in palio nel 2020. 23 di questi sono ora in mano ai Repubblicani e 12 ai Democratici. In ogni caso qui l’elezione del Vicepresidente non avverrebbe per stato come alla Camera, per cui sarà lo schieramento che avrà almeno 51 senatori ad eleggere il Vicepresidente.
Il pareggio, dunque, è tra le opzioni da includere nel ventaglio di scenari possibili, guardando all’Electoral College. D’altronde, nella storia politica anche eventi considerati irrealizzabili e impossibili si sono concretizzati.
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