La campagna del 2020 è stata finora ricca di colpi di scena e imprevisti. Eppure, se c’è qualcosa che è rimasto stabile negli ultimi mesi, è il vantaggio nei sondaggi nazionali di Joe Biden nei confronti di Donald Trump: da giugno a fine settembre l’ex vicepresidente ha infatti goduto di un vantaggio che ha oscillato tra i 6 e i 10 punti percentuali. Tuttavia, i sondaggi indicano un vantaggio non altrettanto largo, ma certamente non meno significativo, anche in un numero di swing states sufficiente per ottenere il numero di grandi elettori che garantirebbe a Biden la presidenza: come abbiamo già avuto modo di vedere in un altro articolo, non essendo il voto popolare a determinare il vincitore delle presidenziali, sarà la vittoria in questi swing states l’elemento decisivo.
Donald Trump inizialmente puntava molto su un’economia galoppante, che però ha subito una brusca frenata nei primi mesi del 2020. Tutto questo, insieme a una gestione dell’epidemia ritenuta insoddisfacente dal 56,4% degli americani, lo ha costretto a rincorrere il suo avversario nei sondaggi, senza grandi successi. Stanotte i due candidati si sfideranno nel primo dibattito presidenziale: questa può rappresentare un’ottima opportunità per Donald Trump per chiudere il gap nei confronti del suo sfidante e puntare ad una vittoria alle elezioni. D’altra parte, il dibattito è un’occasione per Joe Biden per consolidare il suo già largo vantaggio. La domanda sorge allora spontanea: nel passato, quanto hanno influito le performance dei candidati durante i dibattiti presidenziali sui risultati delle elezioni?
I dibattiti cambiano i numeri dei sondaggi, su questo non c’è dubbio: ci sono stati numerosi casi in cui il giorno successivo al dibattito un candidato si è risvegliato con una considerevole crescita o una pesante perdita nei consensi. Un caso esemplare è costituito dal primo dibattito delle elezioni presidenziali del 2012, che vide sfidarsi Barack Obama, presidente in carica e in vantaggio in tutti i principali sondaggi fin da giugno, e Mitt Romney, sfidante repubblicano. Romney si presentò più brillante e più convincente, mentre Obama apparve affaticato e meno reattivo: questo dibattito, così, trasformò il vantaggio di quattro punti percentuali accumulato da Obama in una sostanziale parità, riaprendo i giochi. Obama, tuttavia, riuscì a rifarsi nei due successivi dibattiti e alla fine vinse le elezioni.
Un caso in cui invece il dibattito ribaltò i sondaggi e determinò le elezioni fu quello che vide Ronald Reagan e Jimmy Carter sfidarsi una settimana prima dalle elezioni del 1980. Partendo da svantaggiato, Ronald Reagan tenne un ottimo dibattito e pronunciò un closing statement efficace che divenne famoso. Nel giro di una settimana, così, Reagan recuperò lo svantaggio che aveva nei sondaggi e vinse le elezioni con un sorprendente distacco di 10 punti nel voto popolare.
L’importanza della performance dei candidati durante i dibattiti, in ogni caso, è riconosciuta fin dal primo dibattito trasmesso in televisione, che vide contrapporsi John Fitzgerald Kennedy e Richard Nixon. In quell’occasione, chi aveva guardato il dibattito in televisione pensava che ad aver vinto fosse Kennedy, il candidato più giovane ed energetico, mentre chi lo aveva ascoltato in radio credeva che ad aver prevalso fosse Nixon. Fu di conseguenza chiaro che le immagini potevano spostare molti voti.
Se è vero che i dibattiti muovono i sondaggi, bisogna comunque riconoscere che quelli che determinano l’esito delle elezioni sono l’eccezione, non la regola. Detto in altre parole, chi vince i dibattiti non sempre vince le elezioni: le scorse presidenziali costituiscono un caso esemplare, con Hillary Clinton che vinse tutti e tre i dibattiti, ma perse le elezioni.
Il grafico sottostante rappresenta i risultati dei candidati democratici nei sondaggi prima e dopo il secondo dibattito, nel periodo 1976-2012: i sondaggi condotti una settimana prima del dibattito sono sull’asse x, quelli condotti una settimana dopo sull’asse y. Il grafico si può leggere così: più i punti sono lontani dalla diagonale, maggiore è l’influenza che il dibattito ha avuto sul consenso dei candidati. Come si può notare, raramente i punti si sono mossi tanto. Solo nel 1976 Jimmy Carter perse 9 punti nell’arco di due settimane, vincendo comunque le elezioni: ma è appunto un’eccezione.
Un primo motivo per cui i sondaggi si muovono relativamente poco con i dibattiti è che, nel caso delle elezioni presidenziali, gli elettori sanno già per quale candidato votare e difficilmente cambiano idea in base a cosa vedono durante il dibattito. Un altro motivo per cui il vantaggio guadagnato durante i dibattiti non si concretizza nelle elezioni è che tale vantaggio tende ad essere temporaneo e a tornare ai valori precedenti al dibattito nel giro di qualche giorno. Inoltre, gli elettori possono essere d’accordo sul fatto che un determinato candidato abbia vinto un dibattito, senza però decidere di votare per lui. Infine, occorre tener conto del fatto che non sono soltanto i 90 minuti di dibattito a orientare le scelte di voto, ma anche e soprattutto il commento che ne segue in televisione, i notiziari dei giorni seguenti e gli spezzoni che saranno condivisi e diventeranno virali sui social network: pochi brevi video, infatti, possono influenzare le scelte di voto di tutti quegli elettori che non sono particolarmente interessati alla politica e che non assistono ai dibattiti, ma che incontreranno questi video sulle loro timelines. Infine, sebbene una variazione nei sondaggi di pochi punti percentuali difficilmente può determinare il risultato delle presidenziali, tale variazione può influenzare i risultati di altre elezioni, come per esempio quelle al Senato, cambiando gli equilibri al Campidoglio.
Biden versus Trump: il dibattito che cambierà le sorti della campagna elettorale?
Donald Trump nel 2016 cambiò drasticamente i dibattiti presidenziali, usando strategie di comunicazione che ambivano a spiazzare l’avversario con attacchi personali e basandosi sul linguaggio televisivo, fatto di messaggi brevi e ripetuti. Quest’anno gli analisti credono che adotterà la stessa tattica: nelle ultime settimane ha già ripetutamente descritto il suo avversario come troppo anziano e affetto da demenza senile per poter fare il presidente. Questa, però, può essere un’arma a doppio taglio: da una parte, nel caso in cui Biden facesse qualche gaffe, questa potrebbe essere resa virale sui social network per rafforzare la tesi del candidato repubblicano; d’altro canto, così facendo, Trump potrebbe aver abbassato troppo l’asticella, e a Biden potrebbe quindi bastare una performance discreta per confutare queste accuse. Il candidato democratico, da parte sua, vorrà presentarsi come un presidente inclusivo, tentando di rendere queste elezioni un referendum sul presidente uscente.
Un sondaggio di Politico/Morning Consult diffuso il 29 settembre indica in ogni caso che l’86% degli elettori ha già scelto chi votare, mentre il 14% ritiene di poter ancora cambiare idea. In una tornata elettorale così polarizzata, in cui la maggior parte degli elettori ha già scelto per chi votare, la domanda chiave che entrambi i candidati si pongono è: cosa potrà portare questi indecisi a votare per loro? Noi, da osservatori, vedremo se quest’anno i dibattiti smuoveranno la campagna elettorale o se consolideranno le idee che gli elettori già hanno.
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