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E se i grandi elettori non votano come previsto?

In passato negli USA diversi grandi elettori non hanno votato il presidente e il vicepresidente che avrebbero dovuto sostenere

Per vincere la elezioni presidenziali americane occorre ottenere la maggioranza dei 538 grandi elettori: l’elezione del presidente e del vicepresidente degli Stati Uniti non è infatti diretta, ma è mediata dai grandi elettori. Il ruolo di questi ultimi, in linea teorica, è solo formale, dal momento che la notte delle elezioni di norma è già possibile capire quale ticket è stato in grado di superare la soglia dei 270 grandi elettori necessaria per l’elezione.

I voti dei grandi elettori, però, non sempre hanno eguagliato i dati emersi nella notte elettorale: è infatti capitato più volte in passato che alcuni grandi elettori, al momento di eleggere effettivamente il presidente e il vicepresidente, decidessero di votare non in conformità con quanto previsto dal loro partito. Questi elettori vengono definiti faithless electors, cioè “elettori infedeli”, e nelle 58 elezioni presidenziali della storia americana essi sono stati in tutto 205.

 

Chi sono i grandi elettori?

Il sistema elettorale delle presidenziali statunitensi è un maggioritario in base al quale il ticket che prevale nel voto popolare in uno Stato ottiene in blocco tutti i grandi elettori che esso mette in palio, che equivalgono numericamente alla somma dei parlamentari eletti in quello stesso Stato (2 senatori più un numero di rappresentanti proporzionale alla popolazione, da 1 a 53). Le uniche eccezioni a questo sistema winner-take-all sono Maine e Nebraska, che utilizzano un sistema elettorale leggermente diverso.

Poiché deputati e senatori sono in tutto 535, verrebbe da pensare che anche i grandi elettori siano lo stesso numero. In realtà i grandi elettori sono 538: vanno infatti aggiunti 3 grandi elettori per il Distretto di Columbia, che non ha rappresentanza congressuale ma, per l’appunto, partecipa all’elezione presidenziale.

I grandi elettori insieme formano l’electoral college: il lunedì dopo il secondo mercoledì di dicembre – quest’anno cadrà il 14 dicembre – essi votano per eleggere presidente e vicepresidente degli Stati Uniti, e per essere eletti occorre almeno la metà più uno dei grandi elettori (270). Nella pratica saranno quindi queste 538 persone a scegliere i prossimi inquilini di Casa Bianca e Number One Observatory Circle (residenze ufficiali rispettivamente di presidente e vicepresidente): essendo comunque i grandi elettori selezionati dai partiti, questo dovrebbe garantire la loro fedeltà nel voto. Ma così, come vedremo, non è sempre stato.

 

La storia dei faithless electors

La decisione di adottare il sistema dei grandi elettori fu presa dai padri fondatori, convinti che l’elettorato non avesse le necessarie informazioni sui candidati per prendere delle decisioni informate. Nel Federalist Paper Number 68, Alexander Hamilton scrisse che il compito dei grandi elettori, dotati di maggior giudizio rispetto agli elettori comuni, doveva essere quello di evitare che un candidato con “talents for low intrigue, and the little arts of popularity” potesse diventare presidente. Per questo motivo nel 2016 due grandi elettori repubblicani che aspiravano a convincere i loro omologhi a votare un candidato moderato al posto di Trump presero il nome di Hamilton electors.

Come detto all’inizio, nelle 58 elezioni presidenziali svolte finora, 205 grandi elettori non hanno votato il ticket a cui avrebbero dovuto dare la propria preferenza. Di questi:

  • 49 hanno votato per un candidato presidente diverso da quello che avrebbero dovuto votare;
  • 117 hanno votato il candidato presidente giusto, ma sono stati faithless nel voto vicepresidenziale;
  • 39 sono stati faithless sia nel voto presidenziale che in quello vicepresidenziale.

I faithless electors, in realtà, a volte hanno dovuto cambiare il proprio voto per cause di forza maggiore. In particolare, in due occasioni i grandi elettori sono stati costretti a modificare il proprio voto a causa della morte del candidato che si erano impegnati a sostenere:

  • Nel 1872, dopo aver votato ma prima che i grandi elettori si riunissero, il candidato presidente Horace Greeley morì, e i voti di 63 suoi grandi elettori andarono ad altri candidati. Di essi, 19 votarono anche per un candidato vicepresidente diverso da quello atteso.
  • Lo stesso accadde nel 1912, con la morte del candidato vicepresidente James Sherman (8 grandi elettori).

E gli altri grandi elettori? A parte uno, che si è astenuto alle presidenziali del 2000, i restanti 133 hanno dato il proprio voto a candidati presidenti e/o vicepresidenti diversi da quelli che si erano impegnati a sostenere. Questo non significa comunque che abbiano necessariamente votato per il ticket del partito opposto: semplicemente, non hanno votato i candidati alla presidenza e alla vicepresidenza che avrebbero dovuto sostenere, ma altre personalità.

 

Il caso del 2016

Quella del 1912 fu l’ultima elezione in cui ci fu più di un faithless elector, almeno fino al 2016: quattro anni fa, infatti, il numero tornò a superare l’unità. In particolare, 5 franchi tiratori eletti nelle file dei democratici votarono per candidati diversi da Clinton e Kaine, mentre 2 grandi elettori del GOP fecero lo stesso, danneggiando Trump e Pence: questi ultimi riuscirono comunque ad essere eletti con 304 voti per il primo e 305 per il secondo. Pence, nello specifico, ricevette un voto in più di Trump perché il grande elettore Bill Greene fu un faithless elector solo per metà: votò infatti Ron Paul come presidente, ma seguì le direttive di partito nel votare Mike Pence come vicepresidente. L’altro faithless elector repubblicano, invece, votò l’allora governatore dell’Ohio John Kasich come presidente e l’imprenditrice Carly Fiorina come vice.

Sul fronte democratico, un grande elettore delle Hawaii votò per il ticket Sanders-Warren, mentre 3 grandi elettori dello Stato di Washington votarono l’ex Segretario di Stato Colin Powell come presidente e tre senatrici come vice (le democratiche Maria Cantwell ed Elizabeth Warren e la repubblicana Susan Collins). Nello Stato di Washington ci fu anche un quarto faithless elector, che votò come presidente l’attivista Faith Spotted Eagle (prima nativa americana a ricevere un voto nella storia) e come vicepresidente l’ambientalista Winona LaDuke.

Ai 7 faithless electors del 2016 andrebbero in realtà aggiunti 3 grandi elettori che provarono a “tradire” il ticket per cui si erano impegnati a votare, ma le leggi statali li hanno poi rimpiazzati o costretti a votare per il ticket giusto. In particolare, Bernie Sanders ha ricevuto i voti di altri due grandi elettori eletti nelle file democratiche: si tratta di David Bright del Maine e Muhammad Abdurrahman del Minnesota, che hanno visto invalidare il proprio voto sotto le rispettive leggi statali contro i faithless electors. Bright fu obbligato a votare per Hillary Clinton, mentre Abdurrahman fu rimpiazzato da un altro grande elettore perché aveva anche votato la rappresentante Tulsi Gabbard al posto di Tim Kaine come vicepresidente. In Colorado, infine, il grande elettore democratico Michael Baca votò per il repubblicano John Kasich, ma anche il suo voto fu dichiarato non valido e il Segretario di Stato del Colorado Wayne W. Williams (peraltro repubblicano) rimpiazzò Baca con un grande elettore che votò per Hillary Clinton.

 

E nel 2020?

Per porre fine a questo fenomeno, il 6 luglio scorso la Corte Suprema ha stabilito all’unanimità la possibilità per gli Stati di imporre ai grandi elettori il voto per il ticket che hanno promesso di sostenere prima delle elezioni. Già 33 Stati più il Distretto di Columbia, peraltro, hanno già adottato leggi in tal senso.

In ogni caso, anche se qualcuno dei grandi elettori dovesse decidere di votare per un ticket diverso da quello previsto, incorrendo così nelle sanzioni previste come l’annullamento o la multa, difficilmente ciò potrebbe stravolgere l’esito delle prossime presidenziali. Peraltro Biden ha 306 grandi elettori contro i 232 di Trump, per cui i grandi elettori che dovrebbero voltare le spalle al candidato democratico e farlo scendere sotto quota 270 sarebbero un numero molto elevato: 37.

Francesco Betrò

“Romano de Roma”, ma giramondo per vocazione. Laureato triennale in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali a “La Sapienza” di Roma, ho svolto una magistrale in Mass Media e Politica presso l’Università di Bologna e un Master di primo livello in Editoria e Giornalismo. Precedentemente stagista presso Radio Deejay, ho preso parte al Servizio Civile in Argentina, presso la sede di Lanús.
Appassionato di America latina e di populismo, credo fortemente nella comunicazione. Non toglietemi la musica rap, quella buona chiaramente.

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