Domenica 6 dicembre si vota per le elezioni parlamentari in Romania. Si tratta di un voto che, per varie ragioni, riguarda non solo la Romania, ma anche l’Italia, Paese nel quale risiedono e lavorano 1,2 milioni di romeni e che con la Romania ha scambi per circa 15 miliardi di euro all’anno, anche per via del fatto che in Romania operano e lavorano 19 mila aziende italiane (a fronte delle circa 24 mila romene presenti in Italia). Fino all’arrivo della crisi innescata dal coronavirus, la Romania era un Paese la cui economia era in crescita: per anni il PIL è infatti aumentato al ritmo del 4-5%, ma anche i trend dell’occupazione e dei consumi sono stati per molto tempo positivi. Poi è arrivato il 2020 e con esso la pandemia, e tutto si è fermato.
Chi vincerà queste elezioni, quindi, potrà e dovrà tenere le redini del Paese nei prossimi anni e decidere come riportare il Paese sui binari della sua promettente ma fragile crescita, evitando di ricadere nella recessione e nella povertà da cui faticosamente negli ultimi decenni la Romania ha provato a uscire.
Non solo: le elezioni in Romania riguardano da vicino anche gli equilibri dell’UE intera. Questo perché sino ad ora la Romania – sesto Paese dell’Unione per popolazione – si è sempre tenuta lontana dal gruppo euroscettico dei Paesi di Visegrad, anche se negli anni ha preso posizioni che, lentamente ma inesorabilmente, l’hanno avvicinata a Ungheria, Polonia, Bulgaria e Slovacchia in termini di diritti civili, gestione della giustizia e lotta (molto carente) alla corruzione.
Una vittoria delle forze anti-UE in Romania potrebbe dunque spostare l’asse del Paese verso questo gruppo di Stati critici verso Bruxelles, mentre al contrario una vittoria delle forze europeiste (che, contrariamente a quel che accade nel resto d’Europa, non sono rappresentate dalle forze di centrosinistra – che sono sovraniste – ma da quelle di centrodestra) porterebbe la Romania saldamente nell’alveo dei Paesi fedeli alla linea di Bruxelles e, indirettamente, indebolirebbe l’asse sovranista di Visegrad.
La forma di governo
La Romania è, come la Francia, una repubblica semi-presidenziale, nella quale giocoforza il Parlamento ha un ruolo relativamente limitato rispetto a quello che ha in repubbliche parlamentari come la nostra, perché affianca i suoi poteri a quelli propri del Presidente della Repubblica. Dal Parlamento però dipende la maggioranza di Governo e la fiducia al Primo Ministro, nominato dal Presidente della Repubblica.
Si vota con il sistema proporzionale, in un sistema di bicameralismo nel quale le due Camere – la Camera Deputaților e il Senatul – hanno competenze e pesi diversi. In entrambe le Camere, per accedere al riparto dei seggi i partiti devono superare una soglia di sbarramento pari al 5%, oppure ottenere almeno il 20% dei voti in quattro circoscrizioni. Specifiche tutele sono previste per la rappresentanza delle minoranze.
Da dove partiamo?
Al momento la Romania è guidata, sia al suo vertice massimo – il Presidente della Repubblica Klaus Iohannis – sia per quanto riguarda l’Esecutivo, dal partito di centrodestra PNL. Il PNL (Partito Nazionale Liberale) in realtà non ha vinto le elezioni del 2016, anzi le ha proprio perse, ma per uno dei magheggi del proporzionale, oltre che per l’insipienza dei vincitori del Partito Social Democratico (erede del Partito Comunista, coinvolto in mille questioni di corruzione e schiettamente sovranista), sta governando da quasi due anni.
Questo perché, al momento delle elezioni del 2016, i socialdemocratici erano sì riusciti a creare una maggioranza di Governo insieme ai centristi del partito ALDE, ma non, nei fatti, a governare. Anzi, in tre anni hanno visto cadere tutti e tre i loro Esecutivi. Il tema che ha creato loro più grattacapi è stata la proposta di riforma della giustizia (poi bocciata da un referendum) che mirava a sottoporre le nomina di giudici e procuratori all’Esecutivo: una questione che non solo era lesiva dell’indipendenza dei magistrati, ma che si sommava, in modo piuttosto sinistro, alla storia di corruzione di molti pesi massimi del PSD, il cui presidente, Liviu Dragnea, è stato arrestato e condannato per abuso d’ufficio nel 2019.
Un altro tema che ha impensierito gli elettori romeni e l’UE tutta è stata la proposta del Governo (fallita anch’essa) di bandire dal Paese, tramite referendum, le unioni omosessuali. A queste questioni controverse si sono aggiunti altri aspetti di debolezza della coalizione di governo che ha portato PSD e ALDE a non riuscire mai a governare se non per pochi mesi e soprattutto a far quasi scomparire il loro consenso elettorale: il PSD è passato, nel giro di tre anni, dal 45% a poco più del 16%. I voti persi sono andati a ingrossare i numeri del PNL (lo stesso che esprime, dal 2014, il Presidente della Repubblica), passato, nello stesso periodo da poco più del 20% al 40%. Non solo: i pessimi risultati ottenuti alle elezioni europee, presidenziali e comunali, hanno fatto sì che la coalizione PSD e ALDE si rompesse e che il leader del PNL, Ludovic Orban (nessuna parentela col premier ungherese) formasse un governo di minoranza che, dopo alcune scosse, è ancora in piedi.
I partiti in gioco alle elezioni di domenica
Per le elezioni del 6 dicembre sembra scontata la vittoria del PNL, anche se i socialdemocratici, che nel frattempo hanno cambiato dirigenza, negli ultimi mesi hanno guadagnato terreno, riducendo il proprio svantaggio. I sondaggi riportati da Politico, in ogni caso, danno il PNL in testa col 31% e il PSD secondo al 28%.
In Romania però vige il sistema proporzionale e questi numeri ci dicono in modo molto chiaro che il partito vincitore non riuscirà a formare, da solo, un Governo. Per questo occorre dedicare molta attenzione ai partiti minori, che otterranno risultati certamente inferiori, ma che saranno determinanti per formare la prossima coalizione di governo che, a questo punto, potrebbe essere guidata tanto dal PNL quanto dal PSD: tutto dipenderà dalle alleanze che si formeranno in parlamento.
- Data dal Politico al 16%, la coalizione dei due partiti civici (per quanto abbia senso questa definizione) USR e PLUS è un ibrido strano, inconcepibile per noi italiani. L’USR (Unione Salvate la Romania) è un gruppo molto simile al Movimento 5 Stelle delle origini: i suoi esponenti dicono di non essere né di destra né di sinistra, sono fissati con la lotta alla corruzione e con legalità e trasparenza. Alle elezioni del 2016 hanno registrato un ottimo risultato, prendendo il 9% e diventando il terzo partito del Paese.
PLUS (Partito della Libertà e della Solidarietà) è invece un partito di centro che fa della competenza e della preparazione dei suoi candidati la sua cifra. Il suo leader è l’ex Primo Ministro ed ex Commissario Europeo Dacian Cioloș, attualmente capogruppo all’Europarlamento di Renew Europe (il gruppo di Macron e Renzi, per intenderci) e la sua posizione è quella più saldamente europeista nel panorama romeno. Questo forte europeismo potrebbe far sì che il partito dia il suo sostegno a un Governo della destra del PNL piuttosto che al PSD. - ALDE+Pro Romania (sondaggi su Politico: 7%): di nuovo siamo di fronte a una coalizione tra partiti che in Italia, non avrebbero niente da dirsi. Pro Romania è un piccolo partito di centrosinistra, ALDE di centrodestra. Cosa li tiene insieme? In buona sostanza solo un forte europeismo che, come dicevamo, in Romania è un tema delicato: tutti i partiti romeni sono in qualche misura europeisti, tranne quello socialdemocratico.
- UDMR (sondaggi su Politico: 4%): l’Unione dei Magiari di Romania è un piccolo partito locale che in buona sostanza raccoglie voti solo in Transilvania e che ha come unico punto programmatico la difesa della cospicua minoranza ungherese. Verosimilmente potrebbe stringere accordi con chiunque si impegni a tutelare questa minoranza, con una lieve predilezione per il PSD, che, come detto, è ideologicamente vicino al premier ungherese Viktor Orban.
- Il Partito del Movimento Popolare (sondaggi su Politico: 3%): si tratta di un piccolo gruppo, cattolico e di centrodestra, che potrebbe entrare in coalizione col PNL.
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