Il 15 novembre sono stati chiamati a votare 148 milioni di brasiliani, per eleggere 5.568 sindaci. Per 95 città con più di 200.000 elettori era previsto un secondo turno il 29 novembre, nel caso in cui nessuno dei candidati fosse riuscito ad ottenere la maggioranza assoluta al primo turno. La campagna elettorale è stata condotta prevalentemente sui social e in TV, e gli elettori sono stati chiamati ad esprimersi in maniera rilevante sulla gestione della pandemia da parte dei sindaci.
In Brasile il voto è obbligatorio per i cittadini tra i 18 e i 70 anni. Anche alle luce di questo va sottolineato il dato dell’astensione, che ha raggiunto livelli record: 29,4% (nel 2016 era al 17,6%, un dato già altissimo). Questo testimonia una disaffezione crescente verso la politica, di cui l’elezione di Bolsonaro (anche sull’onda lunga dell’operazione Lava Jato) nel 2018 fu solo uno degli ultimi sintomi.
Come è andato quindi il partito del Presidente Bolsonaro in queste elezioni municipali? Il suo movimento Alleanza per il Brasile – fondato nel 2019 dopo aver lasciato il PSL in lite col fondatore Luciano Bivar – a questa elezioni non si è presentato. Dei 63 candidati di altri partiti da lui sostenuti e per cui ha chiesto il voto durante le sue dirette sui social (invitando a scegliere coloro che «hanno nel cuore Dio, patria e famiglia»), solo 11 consiglieri e 5 sindaci sono stati eletti, di cui 4 di città dell’interno, e comunque non rilevanti – eccezione fatta forse per Rio Branco, capitale dello stato di Acre.
A San Paolo la candidatura forse più bolsonarista, quella di Celso Russomano (Republicanos), è andata male, fermandosi al quarto posto con il 10,5% dei voti espressi. Sono arrivati al ballottaggio l’uscente Bruno Covas (PSDB) col 32,8% e Guilherme Boulos (PSOL) col 20,3%. Al ballottaggio ha poi vinto Covas col 60% dei voti, ma Boulos ha confermato l’ottimo risultato del primo turno.
A Rio de Janeiro non è andata meglio: il Sindaco uscente Crivella (Republicanos), trainato negli ultimi giorni dal sostegno del Presidente, è arrivato al ballottaggio, dove però è stato battuto da Eduardo Paes (DEM) con circa 30 punti percentuali di distacco. Eletto invece consigliere uno dei figli di Bolsonaro, Carlos, a Rio de Janeiro, ma con 35mila voti in meno rispetto al 2016.
Il PT, partito di centrosinistra di Lula e Dilma Rousseff, va male più o meno ovunque, perdendo consiglieri e sindaci, e ad oggi non controlla più nessuna capitale statale. Dove sono andati questi voti? Molto probabilmente al PSOL, nato nel 2004 da una scissione a sinistra proprio del partito di Lula: in questo senso vanno letti i buoni risultati di Boulos o di Manuela D’Avila a Porto Alegre. Altro caso: a Belém, capitale dello Stato del Pará, ha vinto al secondo turno Edmilson Rodrigues (PSOL) col 51,7% dei voti. Rodrigues era stato due volte sindaco proprio con il PT dal 1997 al 2004.
Una delle poche e piccole buone notizie per il PT arriva da Curitiba, città del sud del paese storicamente dominata dai bianchi, dove è stata eletta la prima consigliera nera: Carol Dartora. Da segnalare inoltre come nel Brasile di Bolsonaro – o almeno nelle sue metropoli – la comunità LGBT+ riesca più facilmente ad essere rappresentata nelle istituzioni rispetto ad alcune democrazie occidentali. Erika Hilton (PSOL), trans, è la sesta consigliera più votata nella capitale, con 50.000 preferenze, e poco dietro c’è Thammy Miranda, nona, del Partido Liberal (PL).
In generale però il Brasile si conferma un Paese fondamentalmente conservatore. Bolsonaro, presentandosi senza partito, spariglia e destabilizza un elettorato che secondo i sondaggi lo porterebbe tranquillamente al secondo turno. Del resto, la sua gestione della pandemia è stata criticata e 165.000 morti sono un numero elevato, tuttavia il sistema di aiuti e ristori a pioggia è stato imponente e apprezzato dalla popolazione, soprattutto da quella meno istruita e residente ai confini e sotto la soglia di povertà. Del resto, il Brasile probabilmente chiuderà l’anno con un calo del PIL molto minore rispetto alla maggior parte dei paesi duramente colpiti dalla pandemia.
Avanzano tutti i partiti della frammentata e – dall’impianto ideologico alle volte poco chiaro – galassia di centrodestra brasiliana, sempre permeabile alle istante populiste e estremiste, con gli evangelici ancora molto influenti: in particolare fanno molto bene DEM, MDB e PSDB, con quest’ultimo che governerà la porzione maggiore di popolazione di tutto il Paese. PSDB, MDB, DEM, PSD e Podemos insieme conquistano la maggioranza delle grandi città, e insieme al PP ridisegnano la mappa elettorale brasiliana.
Guardando a sinistra, come anticipato, il PT cala nei consensi, così come gli altri partiti dell’area: PSB, PDT e PCdoB. Cresce invece il PSOL (che va molto bene anche nei quartieri benestanti, come Vila Madalena a San Paolo e Leblon a Rio). Si consolida insomma per il PT il trend negativo iniziato nel 2016 con l’impeachment di Dilma Rousseff, che cristallizza uno stato di debolezza difficilmente reversibile, dove i brasiliani dentro l’urna ricordano vividamente gli scandali di corruzione. Certo, il Presidente Bolsonaro non esce da questa tornata elettorale rafforzato, ma ha comunque la consapevolezza di una sinistra fragile e sa che chiunque voglia diventare Presidente nel 2022 dovrà vedersela con lui.
In conclusione, vi lasciamo un commento sulla situazione economica brasiliana e sulle nuove prospettive politiche a cura di Carlo Cauti, direttore del portale finanziario SUNO Notícias e presidente dell’associazione dei corrispondenti esteri in Brasile.
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