Si svolgono in una Comunità autonoma che in fondo al cuore vorrebbe (o avrebbe voluto) essere nazione e dal loro esito dipende e dipenderà molto dell’assetto e del destino della Spagna intera: stiamo parlando delle elezioni in Catalogna, l’angolo di Spagna dove sorge Barcellona, e soprattutto l’angolo di Spagna che nel 2017 provò ad autoproclamarsi repubblica indipendente – un tentativo di cui oggi non rimane niente, se non un sordo rancore reciproco e un pantano nel quale, per anni, la politica spagnola e quella catalana si sono incartate.
Il voto di domenica, però, potrebbe chiarire una volta per tutte se la strada per l’indipendenza della Catalogna è ancora aperta e desiderata o se è stata accantonata.
Le elezioni si terranno domenica 14 febbraio e dovranno stabilire gli assetti del nuovo Parlamento regionale. A contendersi la vittoria saranno una decina di partiti, ma i favoriti per la vittoria sono di fatto tre:
- Il leader indipendentista di centrosinistra Pere Aragones, vice dell’ultimo Presidente Quim Torra, dopo la cui rimozione per una condanna passata in giudicato ha assunto l’interim;
- Laura Borras, la candidata di Junts, il partito indipendentista di centrodestra del contumace Carles Puigdemont;
- Il candidato unionista e socialista Salvador Illa, che si prepara ad essere la vera sorpresa di queste elezioni già piene di sorprese.
Mille sorprese
Queste elezioni, più che un semplice voto, sembrano la sagra del colpo di scena.
Il primo colpo di scena sono le elezioni stesse. Secondo il calendario elettorale si sarebbero dovute tenere il prossimo dicembre, ossia 4 anni dopo quelle del 2017. Ma il presidente della giunta catalana, l’indipendentista Quim Torra, è stato destituito lo scorso ottobre, dopo essere stato condannato per aver disobbedito a un ordine governativo che gli intimava di togliere, dal palazzo del governo catalano, uno striscione che chiedeva la libertà per i politici indipendentisti detenuti dal 2017 con l’accusa di sedizione. Così, dopo la destituzione di Torra e la sua impossibilità di ricoprire cariche elettive, l’interim è passato al suo vice Pere Aragones, e sono state indette nuove elezioni.
Il secondo colpo di scena riguarda la data: il blocco indipendentista che ha governato la Catalogna negli ultimi anni, con un asse che teneva insieme sia indipendentisti di destra (quelli di Junts, guidati da Carles Puigdemont) e quelli di Sinistra (ERC-Esquerra Republicana de Catalunya), da tempo scricchiola e i due partiti si presenteranno separati al voto. Per questo, proprio per riuscire a riformare l’alleanza e nella speranza di riuscire a presentarsi come un fronte unito, gli indipendentisti hanno pensato di posticipare il più possibile il voto, trascinando l’interim e la campagna elettorale fino a maggio, dicendo che per ragioni di salute pubblica non fosse prudente votare a febbraio. Il Tribunale superiore di giustizia della Catalogna, però, è stato di diverso avviso e ha fissato, comunque, le elezioni per il 14 febbraio.
La terza sorpresa, invece, riguarda il candidato socialista, Salvador Illa. Fino a poche settimane fa, Illa era il ministro della sanità della Spagna: ha gestito i mesi della crisi sanitaria, ottenendo grande visibilità e popolarità. La sua candidatura, nel giro di poche ore, ha sparigliato il quadro elettorale catalano, proiettandolo subito in testa ai sondaggi. Così, da un giorno con l’altro, quella che sembrava una vittoria certa per i seppur divisi indipendentisti si è trasformata in una semplice rincorsa al pareggio.
Perché le elezioni in Catalogna sono così importanti?
In buona sostanza per due ragioni, tra l’altro collegate l’una all’altra. La prima è che la Catalogna è la regione più ricca di Spagna (circa il 20% del PIL del Paese arriva da qui); la seconda (che è direttamente figlia della prima) è che quella Catalana è una regione che da tempo preme per l’indipendenza.
In realtà, la maggioranza dei catalani, alla secessione dal Regno di Spagna non ci pensa proprio, soprattutto nell’area urbana di Barcellona. Ma la parte indipendentista, comunque, è molto numerosa, organizzata e determinata. Secondo i sondaggi di opinione, il 48% dei catalani vuole continuare a far parte del Regno di Spagna, mentre il 44% vuole invece dar vita a una repubblica indipendente. Dati che in buona sostanza ricalcano quelli del discusso referendum autoconvocato del 2017, vinto sì dal 99% di voti pro-indipendenza, ma al quale prese parte solo poco più 40% degli aventi diritto.
A quell’epoca, la giunta catalana, guidata dall’indipendentista di centrodestra Carles Puigdemont, indisse unilateralmente e senza l’autorizzazione del governo centrale un referendum senza quorum sul tema dell’indipendenza della Catalogna. Il giorno del voto, arrivato dopo mille polemiche, fu un giorno nero per i diritti civili in Spagna: ci furono violenze, cariche della polizia, scontri con i manifestanti, seggi chiusi con la forza, in un clima di reciproca diffidenza e ostilità, le cui ferite non sono ancora del tutto sanate.
I mesi successivi al referendum furono convulsi e confusi: il governo centrale spagnolo, guidato all’epoca da Mariano Rajoy (Partido Popular) attivò l’articolo 155 della Costituzione e sciolse – commissariandola di fatto – la giunta della Generalitat; il leader indipendentista Puigdemont fu accusato dalle autorità spagnole di sedizione e dovette fuggire in Belgio (dove si trova ancora, contumace o esule a seconda dei punti di vista, ma protetto dall’immunità di europarlamentare). I catalani indipendentisti subirono così l’umiliazione di vedere completamente ignorate le loro richieste, poiché il referendum e il suo risultato non trovarono nessun riscontro nelle politiche spagnole.
Nel dicembre di quell’anno furono convocate in fretta e furia nuove elezioni per il Parlamento locale: esse vennero vinte, seppur di misura, di nuovo da Puigdemont, che però non si trovava (né poteva tornare) in Spagna. Un disastro amministrativo che, per giunta, si innestava su un clima politico molto polarizzato.
Dal maggio 2018, sei mesi dopo il voto e non senza difficoltà, i gruppi indipendentisti riuscirono ad arrivare a una sintesi e a governare in coalizione, con la presidenza affidata a Quim Torra (uomo di fiducia di Puigdemont) e la vicepresidenza, invece, affidata all’indipendentista di sinistra Pere Aragones. Un equilibrio che seppur fragile ha retto fino allo scorso autunno e alla condanna di Torra.
Il voto di domenica
Nessuno sa dire con precisione cosa succederà domenica: troppo frammentato è il quadro politico, troppo grande l’incognita legata al voto per corrispondenza deciso in fretta e furia per evitare contagi da Covid ai seggi; troppo polarizzato il quadro, dopo che anni il clima è stato avvelenato dal dibattito su un solo tema, quello dell’indipendenza.
Anche se gli indipendentisti sono ancora molto forti, il Partito Socialista Catalano (PSC, costola catalana del PSOE) ha visto di recente un’impennata nei sondaggi ed è arrivato al 21/22%, cosa che lo renderebbe il primo partito.
Il partito centrista Ciudadanos, che era stato il primo partito alle scorse elezioni (ma che non era comunque riuscito a ottenere abbastanza seggi per governare) sembrerebbe aver perso gran parte dei suoi consensi e si collocherebbe poco sotto il 10%.
La formazione di estrema destra Vox sembra invece riscuotere molti consensi e secondo le ipotesi dovrebbe arrivare al 6/7%, riuscendo, per la prima volta, a entrare nel Parlamento della Generalitat: è interessante notare come, per allontanare la nomea di partito razzista, la forza politica guidata da Santiago Abascal abbia scelto di candidare un catalano di origine africana, il deputato Ignacio Garriga. Un risultato simile, attorno a 6%, dovrebbe essere quello di Podemos, che qui non ha mai sfondato. Mentre male dovrebbe andare, come sempre in questa regione, il Partito Popolare, che non dovrebbe neppure raggiungere il 5%.
La vera incognita, però, sarà il risultato dei partiti indipendentisti che si presentano sparpagliati in una miriade di gruppi e che, negli ultimi tempi, hanno dimostrato di avere difficoltà a stare insieme. Il favorito è il gruppo di Carles Puigdemont, Junts, che dovrebbe arrivare al 20%: un risultato sostanzialmente simile a quello della sinistra repubblicana di ERC, mentre la CUP (estrema sinistra indipendentista) dovrebbe fermarsi al 5%.
Se questo scenario si confermasse, ci sarebbero due cose da notare: una novità e una consuetudine. La novità sarebbe il successo dei socialisti e di Vox, che arrivano rispettivamente da pesanti sconfitte elettorali e da una completa assenza nell’Assemblea catalana. La consuetudine sarebbe il successo grande ma comunque insufficiente degli indipendentisti catalani, che probabilmente, nonostante il boom dei socialisti, riusciranno di nuovo a governare (a patto di trovare un accordo tra loro).
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