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Le donne nella politica italiana: poche e lontane dai ruoli di vertice

Solo 5 dei 50 comuni più popolosi sono guidati da sindache e il centrosinistra non sostiene una donna alle regionali dal 2015: i numeri

All’indomani della formazione della squadra di ministri del governo Draghi si è parlato molto, come spesso accade, della carenza di donne nei ruoli di maggior potere, soprattutto fra i nomi del Partito Democratico. Se infatti non vi è dubbio che la centralità delle donne nella politica italiana stia crescendo, è altrettanto vero che nei ruoli di vertice sono ancora una rarità.

Non parliamo solamente della mancanza, nella storia della nostra Repubblica, di Capi di Stato e di Governo di sesso femminile, ma anche della carenza di sindaci e presidenti di regione. Un problema che parte ancora prima del giorno del voto, dalle candidature.

 

Sindache: dietro la Raggi e Appendino il vuoto

Se si pensa a sindache attualmente in carica vengono subito in mente i nomi di Virginia Raggi e Chiara Appendino, alla guida rispettivamente del primo e del quarto comune più popoloso del Paese. Ma per trovare un’altra donna a capo di un comune importante bisogna fare più fatica. Dei primi 50 comuni per popolazione infatti solo 5 sono amministrati da donne: oltre a Roma e Torino ci sono solo Piacenza (Barbieri per il centrodestra), Ancona (Mancinelli per il centrosinistra) e Andria (Bruno, centrosinistra), tutti comuni intorno ai 100 mila abitanti.

 

Questa poca presenza delle donne non riguarda solo le sindache elette, ma anche le candidate. Il centrosinistra, ad esempio, negli ultimi cinque anni nelle 20 maggiori città italiane ha sostenuto solo due candidate, Valeria Valente a Napoli nel 2016 e Orietta Salemi a Verona nel 2017. Va un po’ meglio nelle altre coalizioni, con il Movimento 5 Stelle che ne ha candidate quattro e il centrodestra che ne ha candidate cinque, comprese Giorgia Meloni a Roma e Lucia Borgonzoni a Bologna.

Un panorama non entusiasmante, ma comunque leggermente migliore di quello che potevamo osservare fino a pochi anni fa. Fra il 2011 e il 2015 infatti nessuna donna è stata eletta sindaca di uno dei maggiori 20 comuni, anche perchè fra i candidati sindaci del centrosinistra non c’era nessuna donna, mentre il centrodestra ha sostenuto solo la corsa di Letizia Moratti (uscente) a Milano e Francesca Zaccariotto a Venezia (sostenuta però solo da Fratelli d’Italia). Cinque invece le candidate del Movimento 5 Stelle.

In generale, come riporta l’Istat, l’85,5% dei quasi 8.000 sindaci in carica sono uomini, un dato che sale sopra il 95% in Campania e “scende” all’80% in Friuli Venezia Giulia.

 

Solo uomini per il centrosinistra alle regionali

Situazione simile per i presidenti di regione. Dopo la morte di Jole Santelli è rimasta una sola presidente donna, ovvero Donatella Tesei, che governa l’Umbria per il centrodestra. Anche qui il problema parte però dalle candidature. Il centrodestra ha infatti candidato negli ultimi cinque anni quattro donne, le due elette appena citate più Lucia Borgonzoni e Susanna Ceccardi.

Il centrosinistra negli ultimi cinque anni invece non ne ha candidata nessuna. Nello scorso ciclo elettorale 2011-2015 ne aveva invece sostenute quattro, eleggendo anche la Serracchiani in Friuli Venezia Giulia e la Marini in Umbria (regione che è governata da donne dal 2000).

Più equilibrata invece la scelta dei candidati del Movimento 5 Stelle, che ne ha proposte cinque in quest’ultimo ciclo elettorale e altrettante nei cinque anni precedenti, anche se non è mai riuscito a vincere un’elezione regionale. 

 

 

Un Parlamento sempre più al femminile, anche grazie alla legge

L’attuale Parlamento è quello con la maggiore rappresentanza di donne, che rappresentano il 35,3% degli eletti: si è avuta una crescita costante nelle ultime legislature, dal momento che nella XVII erano il 30% e nella XIII appena il 10%. Il merito è anche dalla legge Rosato: la legge elettorale oggi in vigore ha infatti introdotto norme per una più equa rappresentanza dei due generi nelle liste elettorali (un massimo di 60% di esponenti dello stesso genere sia fra i capilista che fra i candidati all’uninominale, oltre all’alternanza di genere fra i candidati nei listini bloccati).
 

 
Certo, le varie coalizioni hanno comunque sfruttato al massimo i tetti imposti dal Rosatellum alle candidature maschili, candidando pochissime donne in più del minimo consentito. Nei collegi uninominali, considerando entrambe le Camere, i quattro schieramenti principali non potevano candidare meno di 552 donne (il massimo era di 840), e in totale ne sono state candidate 580. C’è poi stato l’espediente delle pluricandidature, utilizzato da diverse formazioni soprattutto con candidate donne: esso ha causato spesso l’elezione di candidati uomini nei listini bloccati al posto di donne plurielette, a causa proprio dell’alternanza di genere imposta nella compilazione dei listini bloccati.

 

Comuni, regioni e Europa: le leggi per l’equilibrio di genere

Norme simili, per garantire un maggiore equilibrio fra i generi nelle assemblee elettive, sono state introdotte anche nelle elezioni per i consigli comunali, regionali e per il Parlamento Europeo. Nelle elezioni regionali e comunali è previsto che l’elettore possa votare due candidati consiglieri, purchè di sesso diverso (Liguria e Puglia si sono adeguate in extremis per le elezioni dello scorso autunno, non senza polemiche).

Alle europee, invece, sono previste fino a tre preferenze, ma se si votano due o tre candidati questi non possono essere dello stesso sesso, pena l’annullamento della seconda e della terza preferenza. Il risultato è che il 39,5% della delegazione italiana al Parlamento Europeo è composta da donne, un dato esattamente in linea con la media dell’Unione.

 

Le donne sono ancora lontane dai ruoli chiave

Così come negli enti locali e regionali, anche nella politica nazionale è tuttora raro vedere donne nei ruoli principali. Solo in quest’ultima legislatura ad esempio è stata eletta per la prima volta una Presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, mentre sono state tre le donne che hanno presieduto la Camera dei Deputati (Nilde Iotti, Irene Pivetti e Laura Boldrini). La Corte Costituzionale, invece, ha avuto una sola Presidente donna: si tratta dell’attuale Ministra della Giustizia Marta Cartabia.

Se negli ultimi governi c’è una rappresentanza di donne maggiore rispetto ai primi anni della Repubblica, i ministeri principali nella determinazione della politica dell’Esecutivo restano saldamente in mano agli uomini. Ad esempio nessuna donna è mai stata Ministro dell’Economia, solo in tre donne sono state Ministro degli Interni (Iervolino, Cancellieri e Lamorgese) e solo tre donne sono state ministro degli Esteri (Agnelli, Bonino, Mogherini).

 

Donne lontane dalla politica

Il gap di rappresentanza non è neanche giustificabile con una minore partecipazione delle donne alla vita politica. Per quanto l’Istat registri che le donne si interessino un po’ meno degli uomini all’attualità politica e che siano meno coinvolte in attività di partecipazione attiva (come manifestazioni, donazioni a candidati, eccetera), il gap nell’affluenza è ridotto.

Ad esempio, alle elezioni politiche del 4 marzo 2018 l’affluenza maschile si era assestata intorno al 76%, mentre quella dell’elettorato femminile si era fermata al 70,7%. In maniera simile, per la tornata europea del 26 maggio 2019 la partecipazione maschile ha superato quella femminile, 58% contro 54,3%.

Sarebbe quindi fuorviante cercare un rapporto di causa-effetto fra il numero di donne che votano e che partecipano alla vita politica e l’evidente squilibrio nella rappresentanza dei due sessi nelle istituzioni.

Francesco Cianfanelli

Collaboro con YouTrend dal 2018 e con Agenzia Quorum dal 2019, occupandomi di strategia, messaggio e social media per soggetti politici e candidati. Nel tempo libero amo la corsa, la bicicletta, i podcast e altre attività da asociali.

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