Nel dicembre 2020, dopo nemmeno un anno dalla formazione, il governo Netanyahu V è caduto sulla finanziaria: ciò ha condotto a elezioni anticipate che si terranno martedì 23 marzo, con la chiusura dei seggi prevista per le ore 21:00. Ma ormai l’instabilità regna sovrana nella politica israeliana: si tratta infatti della quarta elezione nell’arco di due anni.
Del resto, come si può vedere dalle tre tornate precedenti e dall’intera storia politica israeliana, il sistema elettorale israeliano non favorisce assolutamente la governabilità e sono fondamentali i piccoli partiti. Il sistema di voto è infatti un proporzionale puro basato su un unico distretto elettorale nazionale, con l’assegnazione dei seggi che avviene con il metodo D’Hondt e una soglia di sbarramento al 3,25%.
Questi, nello specifico, i risultati dell’ultima elezione, tenutasi il 2 marzo 2020.
Benjamin “Bibi” Netanyahu, il centro di tutto
Da oltre dieci anni Benjamin Netanyahu è il centro della politica israeliana. Nessuno, nemmeno David Ben-Gurion, ha ricoperto la carica di Primo Ministro per così a lungo nel Paese.
Formatosi negli Stati Uniti d’America, Bibi – così è comunemente chiamato – è stato Primo Ministro di Israele per un breve periodo negli anni ‘90. Ma il suo vero dominio comincia nel 2009 e arriva fino a oggi, nonostante le turbolenze che nel frattempo hanno segnato la scena politica israeliana.
Politicamente Netanyahu rappresenta la destra conservatrice. In campo economico, i suoi governi si sono contraddistinti per una visione neoliberista: riduzione dell’intervento dello Stato nell’economia, liberalizzazione dei mercati e deregolamentazione. Se queste riforme hanno dato vita a un ecosistema di start-up estremamente proficuo, allo stesso tempo hanno aperto fratture interne al Paese, con un livello di disuguaglianze piuttosto alto.
Questo, come ha avvertito la Banca d’Israele, potrebbe essere estremamente controproducente per un Paese che, come dicevamo prima, ha basato la sua economia degli ultimi anni sulla tecnologia di alto livello. Un’economia di questo tipo, come dimostrano i Paesi nordici, richiede estrema attenzione al capitale umano: le crescenti disuguaglianze, infatti, potrebbero ridurre il numero di persone con skills adeguate per sostentare l’industria israeliana. E la crisi indotta dalla diffusione del Sars-CoV-2 non ha fatto altro che peggiorare la situazione, erodendo la classe media.
Ma l’economia non sembra essere tra le preoccupazioni degli israeliani. Il successo di Netanyahu è infatti da ricercare nell’immagine che, nel corso degli anni, è andato creandosi: quella di difensore dell’identità israeliana in un contesto di ostilità. Allo stesso tempo, però, il Premier ha dato una svolta personalistica alla politica nazionale, tanto che anche la magistratura ha iniziato a scandagliare la fitta rete di rapporti intrattenuti dal Premier. Il precedente governo, infatti, è caduto proprio sulle accuse di corruzione, nonostante la speranza (fallita) di Netanyahu di raggiungere la maggioranza qualificata per poter ottenere l’immunità.
Il processo, sempre rinviato per via delle limitazioni dovute alla pandemia, lo vede accusato di frode, abuso d’ufficio e corruzione. In questo clima si sono accese sempre più proteste che, nonostante il virus, hanno riempito le piazze d’Israele.
Nemici, alleati, amici: un quadro complesso
Il principale partito rivale del Likud di Netanyahu in queste elezioni, Yesh Atid, è ascrivibile all’area centrista: in passato ha fatto parte dell’alleanza Blu e Bianco, nata per fronteggiare il potere di Netanyahu e finita, in parte, ad appoggiare proprio quest’ultimo come Primo Ministro. Proprio a seguito di questa scelta, il partito Yesh Atid, assieme a quello dell’ex ministro della difesa Moshe Ya’alon, ha deciso di svincolarsi dalla coalizione passando all’opposizione. Il leader Yair Lapid, ministro delle finanze dal 2013 al 2014, è un personaggio peculiare: proveniente dal mondo del giornalismo, durante la permanenza al governo del suo partito ha spinto per una laicizzazione del Paese, arrivando a chiedere di estendere il trasporto pubblico nei giorni di Shabbat. A favore della soluzione dei “due Stati”, il suo partito non intende comunque rimuovere tutti gli insediamenti israeliani in Palestina, pur riconoscendo che la perdita di alcuni territori sarà necessaria per la formazione di uno Stato sicuro e stabile.
A seguire, nei sondaggi c’è Yamina, una coalizione di destra estrema, contraria al riconoscimento dello Stato della Palestina e a ogni rinuncia degli insediamenti israeliani. A livello economico spinge per un minor intervento dello Stato, dichiarando che Israele non è abbastanza capitalista. Alleato di Yamina è New Hope, partito appena fondato dall’ex Ministro degli Interni Gideon Sa’ar: tra le proposte principali del suo partito c’è, guarda caso, l’istituzione di un limite di durata per la carica di Primo Ministro a 8 anni. Questo, come spiega, servirà a ridurre la corruzione e a far sì che il Primo Ministro si concentri sulle riforme e sui valori per cui è stato eletto, invece di spendere energie per farsi rieleggere.
Tra i protagonisti della politica israeliana di questi anni – e cruciale per le prossime elezioni – va sicuramente citata la Lista Unita: si tratta di un’alleanza tra vari partiti rappresentanti la minoranza araba del Paese. La loro agenda politica, pur con varie sfumature, è riconducibile al mondo della sinistra. Continua invece il tracollo del Partito Laburista: pur avendo dominato la scena politica negli anni ‘70, dal 2001 ha imboccato un declino che sembra irreversibile.
Questo rappresenta, in breve, il blocco anti-Netanyahu. Il Premier uscente deve invece far affidamento soltanto sui suoi alleati di destra, in particolare il Partito Sionista, con cui ha già stretto un accordo elettorale.
Ancora stallo?
Le elezioni, con ogni probabilità, porteranno comunque a uno stallo: gli ultimi sondaggi danno il Likud in testa a 29 seggi su 150 totali. Vista la frammentazione del panorama politico israeliano, la maggioranza è ben lontana nella Knesset, il Parlamento monocamerale del Paese.
Questa instabilità ha portato gli esperti a chiedersi se la democrazia israeliana sia in crisi. Della stessa opinione sono gli stessi israeliani: secondo un sondaggio, il 57% di loro ritiene la democrazia in pericolo, per via soprattutto delle proteste anti-Netanyahu che si susseguono da settimane. A complicare ulteriormente la situazione vi è un recente trend: i partiti meno estremisti, compreso il Likud, stanno cercando di accaparrarsi il sostegno arabo. Questa è una situazione sicuramente interessante per la storia israeliana recente: solo qualche anno fa proprio il Premier agitava infatti lo spauracchio della minoranza araba per invitare i suoi alle urne.
La situazione è quindi incandescente, anche considerando che a breve anche in Palestina si voterà, prima per le legislative e poi per le presidenziali. Non c’è dunque da aspettarsi alcun equilibrio nella politica israeliana dei prossimi mesi, ma una situazione ancora più complessa e difficile da interpretare.
Mentre altri partiti di opposizione, il centrista ” Yesh Atid ” (C’ un futuro) e ” Meretz ” (Energia), di sinistra, rimangono, per ora, alla finestra. Sullo sfondo di queste ennesime nuove elezioni in Israele non potr , comunque, non esserci la questione palestinese.