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Riaprire le scuole è sicuro? La questione è molto complicata

Le scuole hanno molto probabilmente un impatto sull’andamento dell’epidemia, ma la loro chiusura ha delle conseguenze socio-economiche che vanno tenute presenti.

All’inizio del ‘900 lo statistico ed economista Pareto notò che l’80% della terra era detenuto dal 20% della popolazione mentre, ovviamente, il restante 80% della popolazione deteneva soltanto il 20% della terra. Questo pattern venne osservato anche in altri fenomeni, in economia, in informatica, ma anche in epidemiologia.

Nonostante il parametro Rt sia fondamentale nel valutare l’andamento di un’epidemia, non descrive microscopicamente i meccanismi di contagio: come tutte le medie, non tiene conto della discrepanza. La diffusione del SarsCoV2 sembra essere infatti un fenomeno che segue il principio di Pareto: il 20% dei contagiati dà luogo all’80% dei contagiati. Per questo è di fondamentale importanza arginare le potenziali cause di contagio: bar, ristoranti, riunioni affollate, feste. Ma anche le scuole.

Ovviamente, a differenza delle altre situazioni, le scuole sono di vitale importanza per un Paese. Chiudere le scuole è una decisione difficile, sofferta, quasi drammatica. Per questo sono stati imposti rigidi protocolli al fine di mantenere in presenza la didattica, laddove possibile. 

Possiamo quindi chiederci, anche a seguito delle polemiche scaturite dalla pubblicazione di uno studio di Gandini, quanto pesano le scuole nel contagio. 

 

I bambini e gli adolescenti sono meno suscettibili?

Nella prima fase della pandemia, si erano aperte due questioni: se gli asintomatici trasmettessero o meno il virus e se adolescenti e bambini fossero suscettibili al virus. Analizziamo, separatamente, queste due questioni, oltre che il loro impatto sulle policy riguardanti la scuola. 

Vista la dinamica sociale del virus, prescindendo per un attimo da aspetti biologici, è naturale aspettarsi una maggior prevalenza nei più giovani: come spiegano i modelli su rete, per motivi strettamente sociali i giovani e i bambini tendono ad avere un grado più elevato rispetto, ad esempio, a quelle fasce d’età che sembravano più colpite dal virus. Con grado, seguendo la terminologia della Teoria dei Grafi, intendiamo il numero di nodi collegati a esso.

Quindi la suscettibilità di bambini e adolescenti al virus in un primo momento appariva improbabile. Questo, però, per via del sistema di testing durante la prima ondata nei paesi occidentali. Presi alla sprovvista dalla diffusione del virus, i tamponi venivano eseguiti a soggetti sintomatici o post mortem, mostrando una distribuzione dei casi nettamente spostata verso le fasce più anziane. 

Paesi come la Corea del Sud, però, che hanno adottato fin da subito un sistema di tracing and testing imponente, mostravano una distribuzione differente.

 

Questa spiegazione, tuttavia, non tiene conto delle caratteristiche biologiche, supponendo che la probabilità di un individuo di diventare infetto sia omogenea a parità di condizioni. 

In una review sul tema, nonostante l’approssimatività dei dati, i ricercatori hanno concluso che vi è una provvisoria evidenza che bambini e adolescenti al di sotto dei 14 anni abbiano una minor suscettibilità rispetto agli adulti. Ciò può essere, in parte, dovuto alle limitazioni imposte a scuole e altri luoghi di aggregazione. 

Qualora invece gli asintomatici non trasmettessero il virus, poichè i bambini difficilmente sviluppano forme sintomatiche, le scuole non sarebbero un problema nella trasmissione del virus. La catena di trasmissione, infatti, non andrebbe oltre. 

Tuttavia, nonostante la discussione sugli asintomatici come driver silenzioso del virus sia ancora aperta, non ci sono dubbi sul fatto che gli asintomatici siano contagiosi. I dati raccolti a Hunan, ad esempio, mostrano come la trasmissibilità non vari tra fasce d’età tra individui asintomatici o sintomatici.

Uno studio basato su coloro che sono stati messi in quarantena a seguito di contatti stretti con positivi in Lombardia tra febbraio e aprile 2020 ha mostrato la seguente distribuzione di casi per età.

 

 

Come si evince dal grafico, tra i casi rilevati nella fascia d’età 0-19 anni, soltanto il 18,1% ha sviluppato sintomi, ovvero febbre superiore a 37,5° o problemi respiratori. 

 

 

L’alta prevalenza di asintomatici tra i più giovani rappresenta, come fanno notare gli autori, un problema per il sistema di testing

Poiché il sistema di testing italiano, ma non solo, si basa ancora su tamponi su sintomatici, i casi positivi che non manifestano sintomi sono più difficili da scovare. In questo modo, qualora dovessero esserci focolai scolastici o comunque legati a diffusione tra i più giovani, la trasmissione emergerebbe in ritardo, quando ormai sarebbe già diffusa alle fasce più anziane della popolazione che, come si è visto, tendono a manifestare sintomi. Questa problematica, in Italia, è esacerbata dagli elevati contatti intergenerazionali, soprattutto con la popolazione over 70. 

 

 

Le scuole impattano sui casi?

Prima della pandemia da SarsCoV2 furono svolti studi sull’impatto della chiusura delle scuole per contenere la diffusione di virus influenzali. 

L’Organizzazione mondiale della sanità (WHO), durante la diffusione dell’Influenza nel 2009, ha redatto un documento riguardante le scuole che offre una visione non univoca. Per valutare l’impatto della chiusura delle scuole non si deve considerare, secondo la WHO, soltanto l’impatto sulla diffusione del virus, ma anche gli effetti secondari dovuti alle chiusure. In uno studio svolto da Jerome Adda sull’impatto del trasporto pubblico in Francia nella diffusione dell’influenza, l’autore sottolinea come le scuole siano uno dei traini del contagio.

Quando il coronavirus colpì tra marzo e aprile 2020 l’Europa, la maggior parte dei paesi europei scelse di chiudere le scuole come misura per arginare i casi, oltre a imporre estese restrizioni alla mobilità e alle interazioni sociali. Con la seconda ondata invece i governi hanno tentato di tenerle aperte il più possibile.

In questi mesi ci sono state molte ricerche sul ruolo delle scuole nell’epidemia e non si è arrivati a una conclusione univoca. Gli studi sul tema hanno mostrato infatti risultati contrastanti: in alcuni casi la chiusura delle scuole ha contribuito a bloccare la diffusione del contagio, in altri l’effetto è stato più modesto, anche perché la decisione di chiudere le scuole avviene quando ormai la diffusione è quantomeno attenuata. 

A luglio uno studio americano ha rivelato come la chiusura delle scuole comporti una riduzione significativa dell’incidenza dei nuovi casi (-62%) e della mortalità associata alla Covid-19 (-58%). Nonostante si evidenzi un’associazione tra chiusura delle scuole e incidenza di nuovi casi, i ricercatori osservano come la riduzione “potrebbe essere correlata ad altri interventi non farmaceutici”.

Un’analisi sull’Italia pubblicata su LaVoce ha rilevato come nelle regioni che hanno aperto le scuole il 14 settembre l’incidenza dei casi a metà ottobre era maggiore del 71% rispetto alle regioni dove avevano aperto il 24 settembre. Si tratta di un risultato diverso rispetto a uno studio tedesco condotto con la stessa metodologia che invece aveva scoperto che le scuole rallenterebbero l’epidemia. 

Un’altra analisi condotta sulla Sicilia ha scoperto che l’apertura delle scuole influenza il numero di casi, ma che l’effetto è molto eterogeneo per via delle diverse caratteristiche della popolazione scolastica. Al 14 dicembre se non si fossero aperte le scuole i casi cumulativi sarebbero stati più bassi tra il 15% e il 26%. 

Uno studio condotto dai ricercatori dell’Università del Michigan e dall’Università di Washington ha scoperto che le scuole contribuiscono alla circolazione del virus solo quando i tassi di contagio sono già relativamente alti. A Washington le scuole hanno iniziato a contribuire quando si sono raggiunti i 5 casi per 100.000 abitanti al giorno, mentre in Michigan quando sono arrivati a 19 per 100.000. In Italia sarebbero 3.000 e 11.000 casi al giorno. 

Va inoltre evidenziato come l’impatto può dipendere da che tipo di scuola si apre. Uno studio pubblicato ad agosto ha mostrato come le scuole superiori possano avere un impatto diverso per via del maggior numero di interazioni sociali che hanno gli adolescenti rispetto ai bambini.

A gennaio tre ricercatori dei Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie (CDC), il principale organismo di salute pubblica negli Stati Uniti, hanno pubblicato un articolo in cui hanno evidenziato come “ci sono state poche prove che le scuole abbiano contribuito in modo significativo all’aumento della trasmissione”.

Un altro studio del CDC su 17 scuole primarie e secondarie delle zone rurali nel Wisconsin ha rilevato che solo sette casi di coronavirus su 191 erano dovuti alla trasmissione a scuola. Un fatto importante è però che sia gli alunni sia i docenti utilizzavano le mascherine per tutto il tempo. La principale ricercatrice, Margaret A. Honein, ha dichiarato che con “adeguati sforzi di prevenzione […] possiamo mantenere la trasmissione nelle scuole e nelle strutture educative piuttosto bassa”. Secondo Honein, anche in situazione in cui si ha un’alta prevalenza non vi sono prove che nelle scuole la velocità di trasmissione sia maggiore di quella osservata nella popolazione generale.

Sempre il CDC ha analizzato a gennaio l’impatto delle università negli Stati Uniti e ha concluso che dopo 21 giorni dall’inizio dei corsi nelle contee con università che fanno lezioni in presenza l’aumento dei casi è del 56%, dove sono chiuse è del 18% e dove non ci sono università i casi sono calati del 6%. Un data scientist, analizzando i dati su un periodo più lungo di tempo, ha invece osservato come in realtà non c’è particolare evidenza che le lezioni in presenza abbiano incrementato di più i casi rispetto a dove sono state da remoto. 

A febbraio i CDC hanno dato dei criteri per identificare il rischio di trasmissione nelle scuole basandosi sull’incidenza nei 7 giorni per 100.000 abitanti e sul tasso di positività:

  • trasmissione bassa: incidenza inferiore a 10 e positività inferiore a 5%
  • trasmissione moderata: incidenza tra 10 e 50  e positività tra 5% e 8%
  • trasmissione sostanziale: incidenza tra 50 e 100  e positività tra 8% e 10%
  • trasmissione alta: incidenza superiore a 100  e positività oltre 10%

Per mitigare il rischio, secondo il CDC, tutti devono utilizzare le mascherine e tenere almeno 1,8 metri di distanza. Si raccomanda inoltre un aggressivo contact tracing e la messa in quarantena di chiunque possa essere stato esposto al virus.

 

Le criticità dello studio italiano di Gandini

A fine marzo su The Lancet Regional Health è stato pubblicato uno studio sull’Italia condotto dall’epidemiologa Sara Gandini, una forte fautrice della riapertura delle scuole. 

Si è parlato moltissimo di questo studio e in estrema sintesi i ricercatori hanno scoperto che tra il 12 settembre e l’8 novembre l’incidenza dei casi tra gli studenti era inferiore a quella della popolazione generale, mentre quella tra gli insegnanti era “comparabile”. L’apertura delle scuole non ha influenzato l’indice di riproduzione effettiva Rt. Secondo loro, quindi, le scuole “non devono essere considerate come un fattore rilevante che influenza l’epidemia”. 

Lo studio ha però diverse criticità. Una delle principali è che analizza solo il periodo da settembre a inizio novembre quando la diffusione era minore, così come la prevalenza nella popolazione. Un altro problema è dovuto al fatto che in Italia una parte molto consistente dei casi viene trovata per via della sintomaticità. Ma i bambini e i ragazzi, come abbiamo visto, hanno una probabilità sensibilmente minore di sviluppare sintomi e quindi di essere testati. Una minore incidenza rispetto alla popolazione potrebbe quindi essere dovuto a questo, oltre al fatto che sono anche meno suscettibili al contagio.

Una importante criticità sta anche nella decisione di calcolare l’indice di riproduzione effettiva Rt a partire dai dati per “sospetto diagnostico”. Si tratta di dati problematici perché non è mai stata data una definizione univoca e che non rappresentano i casi sintomatici. A dicembre il Ministero della Salute ha persino smesso di pubblicarli da un giorno all’altro. È interessante poi che il paper dica che i dati sono affidabili per via della “stabilità” e per “l’assenza di ricalcoli” considerando che essendo dati per data di notifica e non di prelievo non possono che essere così.

Un confronto tra l’Rt della Lombardia calcolato a partire da questi dati (in rosso nel grafico) e a partire da quelli con cui effettivamente viene calcolato Rt dall’Istituto superiore di sanità (in blu) mostra che vi è una considerevole discrepanza. In particolar modo la crescita di Rt inizia sensibilmente prima rispetto agli altri dati.

Un’altra delle criticità è l’analisi sui dati del personale docente. Il paper si focalizza su quanto succede in Veneto, ma un’analisi del fisico Alessandro Ferretti a livello nazionale e con i dati messi a disposizione dagli autori mostra come l’incidenza tra i docenti sia sensibilmente maggiore di quella della popolazione in età lavorativa e in particolar modo per quanto riguarda gli insegnanti della scuola primaria. L’incidenza tra i docenti di medie e superiori invece flette quando vi è il passaggio alla didattica a distanza in diverse regioni italiane. 

 

L’impatto delle scuole in Italia

In un’audizione presso il Comitato tecnico scientifico (CTS) a fine gennaio, il matematico Stefano Merler della Fondazione Bruno Kessler ha analizzato l’impatto dell’apertura delle scuole sull’epidemia.

Merler evidenzia come prima del Dpcm che ha istituito il sistema a colori l’epidemia sarebbe cresciuta indipendentemente dall’apertura delle scuole, ma questa “sarebbe stata più marcata” con l’apertura delle scuole superiori e “meno marcata” limitando l’apertura a scuole primarie e medie. 

Secondo Merler, “l’epidemia appare gestibile in zona gialla con la chiusura delle scuole superiori di secondo grado, mentre nelle zone arancioni o rosse risulta gestibile anche con la loro apertura”. La differenza di Rt tra i due scenari è 0,1-0,15.  In generale, il minor impatto fino alle scuole medie è dovuto alla minore suscettibilità di bambini e ragazzi. 

Il matematico evidenzia però come vi sia una forte assenza di dati sulla scuola. Merler spiega che non ci sono dati sui contagi instrascolastici e non si hanno stime sulla trasmissibilità scolastica. La base dei suoi calcoli sono stati i contagi divisi in base all’età, ma senza poter sapere se i contagi sono avvenuti fuori o dentro la scuola. 

Il CTS in un successivo verbale ha spiegato che ha senso chiudere le scuole in zona rossa alla luce dei focolai in ambito scolastico, del rischio epidemiologico e dell’incidenza. Allo stesso tempo sostiene che vada “garantita quanto più possibile e compatibilmente con lo scenario epidemiologico l’attività in presenza”. 

 

 

Gli effetti socio-economici della chiusura delle scuole

La prolungata chiusura delle scuole, resa necessaria dalla diffusione del virus, ha avuto degli effetti deleteri, a partire dalla salute mentale delle studentesse e degli studenti. 

Nel Regno Unito l’ultima survey di Young Minds ha indagato la salute mentale delle persone con età compresa tra i 13 e i 25 anni che avevano già sofferto di problematiche legate alla salute mentale. La survey si è svolta durante il terzo lockdown, questa volta con le scuole chiuse. Precedentemente infatti il governo di Boris Johnson, da sempre restio al confinamento, aveva mantenuto le scuole aperte durante il confinamento di novembre, permettendo alla B.1.1.7. di diffondersi nelle scuole. Dei partecipanti, il 75% ha affermato che il terzo lockdown è stato più difficile da sopportare rispetto ai precedenti. Il 67% ha affermato che gli effetti saranno permanenti. 

La chiusura prolungata delle scuole ha inoltre degli effetti non indifferenti sulla performance degli studenti. Ma il peggioramento è uguale per tutti? 

A questa domanda hanno provato a rispondere Agostinelli e altri in uno studio pubblicato a dicembre. A soffrire di più della didattica a distanza, secondo il modello, sono infatti i ragazzi che hanno genitori meno istruiti, con una limitata capacità di accesso a Internet e che vivono in zone meno centrali. Si parla infatti di un learning loss di 0.4 deviazioni standard per gli alunni più poveri, mentre la performance rimane pressoché identica in quelli più ricchi. Questo è dovuto in parte al passaggio dall’ambiente scolastico a quello del vicinato, che avvantaggia gli studenti provenienti da zone più benestanti. E in parte anche ai cambiamenti genitoriali: la pandemia infatti ha mostrato un aumento dell’authoritarian parenting nei percentili di reddito più bassi. 

Un risultato simile, ma con dati provenienti dai test standardizzati effettuati in Olanda, è quello ottenuto da Per Engzell, Arun Frey, Mark Verhagen. L’Olanda, come ricorda il professore di economia alla Sapienza Fabio Sabatini, rappresenta un caso interessante visto che la chiusura delle scuole è stata relativamente breve. I dati hanno mostrato, nelle scuole primarie, un calo di 3 punti percentuali nei test di lettura, scrittura e matematica, ovvero 0.8 deviazioni standard. Sulle basi di uno studio svedese, un calo di 1 deviazione standard alle superiori corrisponde a una differenza di salario del 10-20%. Gli autori, inoltre, stimano che il calo sia stato più consistente negli alunni provenienti da famiglie a basso reddito. 

Non sappiamo ancora, tuttavia, se questi risultati saranno permanenti. Uno studio effettuato sui dati dell’influenza spagnola sembra dirci che gli effetti di lungo periodo non saranno così impattanti. C’è tuttavia da far notare che la struttura sociale del tempo e la presenza scolastica erano estremamente diverse rispetto a oggi. 

La necessità di implementare la didattica a distanza in Italia, inoltre, si incaglia contro una situazione di povertà tecnologica. Come mostra il report Istat, il nostro paese ha una situazione a dir poco drammatica sotto questo aspetto. Nella mappa qui sotto riportata è possibile confrontare il numero di famiglie che non hanno nè un computer né un tablet in casa. La situazione, come si evince, è particolarmente problematica nelle regioni del Sud. 

 

 

Un secondo problema riguarda le capacità digitali dei giovani italiani. Anche qui la situazione mostra lacune più preoccupanti nel Sud Italia e nelle Isole.

 


 

Questo tipo di disparità rischia di inasprire le già drammatiche disuguaglianze che vive il nostro paese, ampliando il divario tra i più ricchi, che vivono in zone centrali con ottime capacità digitali e un computer proprio, e invece i più poveri, con limitate capacità di accesso e famiglie che non possono provvedere all’educazione dei figli.

 

Conclusione

In conclusione, la gestione delle scuole è un tema molto complicato e non c’è una soluzione univoca su cosa si debba fare. I bambini e gli adolescenti sono infatti tendenzialmente asintomatici e meno suscettibili e un approccio di testing principalmente basato sui sintomi impedisce di accorgersi del contagio tra di loro.

Le scuole probabilmente hanno un ruolo nell’epidemia, anche se ci sono studi contrastanti. La questione meno chiara è se ne siano solo il motore o anche l’elemento che dà inizio a una nuova ondata. Appare però evidente come con le dovute misure sia possibile ridurre il rischio di contagio, tenendo presente che la trasmissione airborne gioca un ruolo importante.

Quando si chiudono le scuole vanno però considerati gli effetti socio-economici che ha questa decisione. In particolar modo gli studi sul tema suggeriscono che la didattica a distanza danneggia in particolar modo i più svantaggiati e accresce le disuguaglianze sociali.

In generale, quindi, alla domanda se ha senso chiudere le scuole non c’è ancora una risposta univoca. Si tratta di un complicato trade-off tra andamento epidemiologico e conseguenze sociali.

 

P.S. Ci teniamo, però, a sottolineare un limite della nostra trattazione: gli studi utilizzati non sono aggiornati per la B.1.1.7. (anche detta “variante inglese”). 

Mattia Marasti

23 anni, studente di matematica, bevitore incallito di tè.

Lorenzo Ruffino

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