Il flop della Super League non è solo il fallimento di un progetto sportivo, ma è un fallimento politico e può essere letto proprio sotto la lente della politica. L’iniziava parte infatti dallo scontro politico fra l’ECA, che rappresenta i club europei, e la UEFA, l’associazione che gestisce il calcio e le sue competizioni ufficiali in Europa. Questo scontro ha raggiunto il suo apice nella trattativa sulla riforma della Champions League (che sarebbe stata poi annunciata poi il giorno successivo all’annuncio della Super League), che accoglieva parzialmente le richieste dei club.
Da un lato l’ECA chiedeva infatti garanzie maggiori per i grandi club di evitare di rimanere fuori dalla Champions League e il potere di veto sulle scelte commerciali e organizzative della competizione; dall’altro l’UEFA intendeva aumentare la platea delle squadre partecipanti, ma non era disposta a concedere troppi poteri ulteriori ai club. Il nuovo formato della Champions League era un possibile compromesso, con quattro squadre in più coinvolte (e quindi più partite e scontri diretti), due posti garantiti per i grandi club che mancano la qualificazione e un compromesso sulla condivisione di alcune scelte commerciali fra club e UEFA.
Una “crisi di governo” del calcio
La scelta di annunciare la Super League è quindi sì la dimostrazione dello scontento dei 12 club fondatori (in contrasto anche con le posizioni moderate dell’ECA), ma soprattutto una tentata manifestazione di forza per dimostrare di poter essere autonomi dalla UEFA. Nella teoria politica si parla, utilizzando i concetti di Hirschman, di “exit” (ritirarsi dalla relazione, quindi abbandonare un prodotto di cui si è scontenti, uscire da un partito…) e “voice” (risolvere il problema tramite la comunicazione, quindi lamentarsi, proporre soluzioni, trattare…). Schematizzando la situazione, questo è lo scenario da cui nasce la Super League.
L’annuncio della Super League quindi avrebbe potuto portare a riaprire la trattativa e avere maggiori concessioni. Utilizzando una metafora politica, e come quando un alleato di minoranza di un governo minaccia una crisi per ottenere una concessione politica (leggi, ruoli di potere…). Perché ciò funzioni, la minaccia di exit deve essere però credibile. In politica una minaccia del genere non sarebbe credibile se il partito scontento non fosse disposto a correre il rischio di andare a elezioni o se non potesse creare un governo alternativo con altri partiti, ad esempio. Nel caso della Super Legue le condizioni sono diverse.
Per rendere credibile la minaccia della Super League sarebbero stati necessari:
- La disponibilità dei grandi club a farne parte
- L’appoggio dei tifosi
- Sostenibilità economica (sponsor, TV)
- L’appoggio del sistema calcio
- L’appoggio (o almeno la non ostilità) della politica
Di tutte queste condizioni i 12 club scissionisti ne avevano solo una: la prima (seppur con le eccezioni di PSG e Bayern Monaco).
I tifosi
Le proteste di tifosi per strada come sui social non sono state degli episodi isolati, ma la rappresentazione di un malcontento generalizzato in tutta Europa. In un sondaggio di YouGov è emerso che il 79% dei tifosi del Regno Unito era contrario alla Super League, e fra i tifosi delle “sei grandi” il dato era di poco inferiore (76%).
Eppure, data la grandezza potenziale dell’operazione, è difficile immaginare che l’accoglienza della Super League non sia stata oggetto di sondaggi e indagini di mercato prima del lancio. Come è possibile che gli organizzatori della Super League abbiano quindi sottovalutato le reazioni dei tifosi?
Le riflessioni a tal proposito potrebbero essere due:
- da una parte, occorre sottolineare come le reazioni a un fatto compiuto siano più intense di quelle relative ad un fatto ipotetico, vago e lontano del tempo, e quindi un sondaggio sull’opinione dei tifosi avrebbe potuto sottovalutare l’impatto dell’annuncio.
- la reazione congiunta di UEFA e leghe nazionali, con la minaccia di escludere i grandi club dai campionati locali, per quanto poco credibile, ha creato un contrasto netto fra campionati locali e Super League, cioè fra calcio da sempre amato dai tifosi e il nuovo progetto, alimentando il frame del “calcio del popolo vs il calcio delle élite”.
Le TV e gli sponsor
Da anni si discute dell’eccessiva dipendenza dei club dagli introiti dei diritti televisivi. Eppure la Super League è stata lanciata senza alcun appoggio esplicito da parte di broadcaster e media in generale.
Un segno di impreparazione, soprattutto se si considera che, secondo il Financial Times, i club della Super League contavano di raccogliere circa 4 miliardi di euro annui di diritti televisivi, molti di più dei 2,4 raccolti nella stagione 2020/2021 dalla UEFA Champions League.
Anche i broadcaster hanno infatti manifestato scetticismo sul progetto Super League, da una parte a causa del rischio di boicottaggio (nel già citato sondaggio di YouGov il 75% degli intervistati diceva che non avrebbe seguito la competizione), dall’altro a causa dell’automatica perdita di appeal che avrebbe coinvolto la Champions League, un torneo su cui diversi degli stessi broadcaster avevano già investito acquistandone i costosi diritti di trasmissione.
Una citazione a parte la merita beIN Sports, broadcaster presieduto da Nasser Al-Khelaïfi, che è anche il presidente del Paris Saint-Germain. Proprio il conflitto di interessi fra la Super League e beIN Sports, che ha i diritti di trasmissione della Champions League in Francia, Medio Oriente, Nord Africa e parte dell’Asia, è ritenuto essere all’origine della decisione del PSG di tenersi fuori dal progetto, almeno nella fase iniziale. Tale situazione ha finito per indebolire ulteriormente la posizione della Super League, privata di uno dei club europei più attrattivi e seguiti anche al di fuori dei confini del Vecchio Continente.
Non solo quindi i 12 club non si sono presentati con l’appoggio già garantito da parte di un media partner, capace di poter dare sostenibilità economica e una copertura mediatica all’altezza del progetto, ma questi hanno anche sottovalutato la reazione ostile dei media interessati a tutelare la Champions League dei prossimi tre anni. Questi, attraverso il potere esercitato sui bilanci dei club, hanno messo i “secessionisti” in una posizione di debolezza.
In alcuni casi i broadcaster hanno ripreso il frame già utilizzato dalla UEFA e dai tifosi, «calcio delle persone vs calcio delle élite». Amazon Prime Video nel suo comunicato afferma di essere «orgogliosa di offrire alle persone il calcio che interessa loro», mentre BT Sport nel suo comunicato rimarca l’importanza del calcio nella vita di molte persone, e di come questo necessiti quindi di essere protetto.
Siamo quindi di fronte a una comunicazione politico/sociale da parte dei brand: pratica molto comune nei contesti inglesi e americani, meno in quello dell’Europa continentale, da cui, forse non a caso, vengono il presidente della Juventus Andrea Agnelli e quello del Real Madrid Florentino Perez, i due principali sostenitori del progetto. Anche per questo motivo i fondatori potrebbero aver sottovalutato questo genere di reazione politica da parte di quei brand che sono alla base dell’economia della sostenibilità calcistica.
Lo stesso frame “calcio del popolo vs calcio delle élite” è stato utilizzato da un altro protagonista importante, ovvero il mondo degli sponsor. Vediamo un esempio ancora più chiaro con il comunicato con cui TRIBUS, brand di orologi di lusso di Liverpool e sponsor dei Reds, manifesta la sua intenzione di ritirare la sponsorizzazione del club inglese.
La frase finale richiama quasi lo slogan del Partito Laburista «for the many, not the few», e si inserisce nel crescente protagonismo dei brand all’interno del discorso politico. I dati di YouGov confermano l’efficacia di questo frame sui tifosi del Regno Unito, considerando che secondo l’89% degli intervistati l’istituzione della Super League non veniva incontro alle esigenze dei fan quanto piuttosto ad una mera necessità di guadagno da parte dei club fondatori.
Un ulteriore punto di debolezza della proposta della Super League era dunque la carenza di introiti garantiti al momento del lancio, al di là dell’apporto finanziario iniziale di JP Morgan. D’altronde, il rigetto da parte dei tifosi metteva in una crisi valoriale gli sponsor che già sostenevano i dodici club, che avrebbero potuto scegliere di rifiutare l’accostamento del proprio brand a dei club coinvolti in un’inaspettata crisi reputazionale.
L’assenza dei testimonial
Ancora più sorprendente è che gli organizzatori non abbiano organizzato un’iniziativa che vedesse coinvolti dei testimonial che potessero garantire sulla bontà del progetto, come calciatori, allenatori o ex-calciatori, il cui parere tecnico, fuori dalle logiche economiche, avrebbe potuto influenzare con efficacia i tifosi. Il risultato è che la discussione è stata dominata da pareri contrari provenienti dai molti punti di riferimento dei tifosi stessi, senza nessuna contro-narrazione organizzata dai club fondatori.
A indebolire ulteriormente la posizione dei club fondatori della Super League sono arrivate dichiarazioni contrarie all’operazione anche da parte di alcuni tesserati dei club coinvolti, che testimoniano la mancanza totale di coordinamento e di coesione che ha coinvolto l’intero progetto. Due esempi lampanti sono costituiti dalle dichiarazioni dell’allenatore del Manchester City Pep Guardiola e dei giocatori del Liverpool, su tutti il capitano Jordan Henderson.
La necessità dei tifosi di ottenere protezione dai loro idoli sportivi relativamente all’introduzione di una competizione tanto malvista ha toccato anche l’Italia: l’iniziativa più eclatante è stata quella di un gruppo di tifosi celebri dell’Inter (tra gli altri, Enrico Mentana, Gad Lerner e Michele Serra) che hanno deciso di scrivere a Javier Zanetti, ex capitano e attuale vicepresidente del club, per manifestare il proprio scontento.
A rendere ancora più ingiustificabile l’errore c’è il fatto che molti ex giocatori storici sono anche dirigenti dei club fondatori della Super League. Un esempio è quello di Paolo Maldini, storica bandiera milanista e attuale direttore tecnico rossonero, che il 21 aprile ha dichiarato:
“Non sono mai stato coinvolto nelle discussioni che riguardavano la Super League. Ho saputo tutto domenica sera, come tutti voi. Questo però non mi esenta dalla responsabilità e dalle necessità di dovermi scusare con i tifosi che si sono sentiti traditi nei principi fondamentali nello sport che il Milan ha sempre rispettato”.
Il fatto che gli idoli calcistici dei tifosi si siano detti in schiacciante maggioranza contrari al progetto dei proprietari dei club ha rafforzato ulteriormente il frame “calcio dei tifosi vs calcio delle élite”, solidificando la percezione di una vicinanza di intenti fra i tifosi e i calciatori, uniti contro gli interessi economici delle proprietà dei club.
La reazione della politica
Un altro attore di cui i club della Super League hanno sottovalutato la reazione è la politica. Il potere legislativo, esecutivo e regolatorio in mano alla politica è apparso infatti in grado di bloccare sul nascere il progetto del nuovo campionato. Evidentemente i fondatori della Super League non immaginavano una reazione così veemente e unanime da parte dei soggetti politici scesi in campo, reazione che si è rivelata capace di orientare ulteriormente l’opinione pubblica in senso negativo relativamente alla nuova competizione.
Si sono esposti il governo spagnolo e quello francese, ma anche Mario Draghi, che in una nota ha dichiarato:
«Il Governo segue con attenzione il dibattito intorno al progetto della Super Lega e sostiene con determinazione le posizioni delle autorità calcistiche italiane ed europee per preservare le competizioni nazionali, i valori meritocratici e la funzione sociale dello sport.»
Nessuno in Europa si è però speso in maniera così forte e incisiva come il premier britannico Boris Johnson che, sostenuto anche dai partiti dell’opposizione, ha minacciato i sei club inglesi coinvolti nella Super League di far ricorso a una «bomba legislativa» per bloccare l’intera operazione. Fra le misure ipotizzate per far desistere i club c’erano restrizioni sui permessi di lavoro dei calciatori stranieri, una riforma delle leggi sugli assetti proprietari dei club e un ricorso all’antitrust britannica.
Era prevedibile questa reazione da parte del governo inglese? Per alcuni sì. Secondo Patrick English, political research manager di YouGov, nessun politico britannico avrebbe potuto rischiare di sembrare disconnesso dagli interessi dei cittadini o immobile di fronte a un problema che interessa così tanto i cittadini, relativo a uno sport, il calcio, così integrato nella cultura britannica. Will Tanner, direttore del think tank Onward, aggiunge un elemento più strettamente politico, facendo notare come i temi calcistici siano particolarmente sentiti in aree della Gran Bretagna particolarmente strategiche in termini elettorali.
L’esempio più lampante è quello del cosiddetto “Red Wall“, che corrisponde alla zona centro-settentrionale dell’Inghilterra: un’area storicamente laburista che, però, solo recentemente si sta spostando verso il partito conservatore. In quell’area si concentrano anche diversi club di Premier League, come le due squadre di Manchester e di Liverpool, il Leeds, il Burley e lo Sheffield United. In un sistema elettorale maggioritario come quello britannico, inoltre, il governo centrale è particolarmente sensibile alle pressioni che ottiene dagli eletti nei seggi chiave.
Will Tanner racconta anche, come esempio, che in un focus group svolto nella città di Grimsby, emergeva che i cittadini consideravano il ritorno della sede del club calcistico in città come un modo utile per migliorare la qualità della città stessa. Un segno chiaro, a suo dire, dell’importanza che il sistema calcistico apporta alle comunità locali. Per Tanner, in effetti, «una risposta così rapida è il segno che il governo capisce l’importanza che questi temi hanno per l’elettorato conservatore».
Inoltre la critica alla Super League, da un punto di vista comunicativo, entra perfettamente nei frame già cari alla retorica di Boris Johnson, come le fratture ‘locale vs europeo/internazionale’ e ‘popolo vs élite’.
Anche se la reazione di altri governi è stata molto meno tempestiva e incisiva di quella di Johnson, la posizione contraria dei primi ministri di Italia e Spagna non esclude che ci sarebbe stato un intervento di dissuasione rivolto anche ai club di questi due Paesi, magari in una fase successiva. Resta il fatto che non garantirsi l’appoggio di parte dei politici in grado di influenzare il successo di un’operazione così ambiziosa e la mancanza di verifica delle reazioni da parte delle comunità locali nei confronti della Super League si sono rivelati errori fatali.
Per fare tutto questo e agire in modo corretto era però necessaria una conoscenza del contesto politico che evidentemente è stata sottovalutata o è del tutto mancata, come hanno spiegato gli esperti citati in precedenza.
Il nostro dossier
Come abbiamo visto, la questione della Super League è un caso studio interessante per chi, come noi di YouTrend, si occupa di comunicazione e in particolar modo di comunicazione politica. Se volete saperne di più, scaricate il nostro dossier completo che vi linkiamo qui sotto:
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