“Quante altre sorelle e fratelli americani volevate che io mandassi a combattere la guerra civile afgana?” si è domandato Joe Biden nel suo discorso a reti unificate alla nazione nel pomeriggio di lunedì 16 agosto. Un’intera generazione è nata e cresciuta durante la guerra in Afghanistan.
Pochi giorni fa, mentre l’esercito statunitense lasciava il Paese, è accaduto l’imponderabile: i talebani, dopo aver conquistato tutte le province, hanno accerchiato la capitale Kabul, costringendo alla fuga il governo civile – che resisteva soltanto grazie alla presenza delle forze armate USA – e instaurando senza opposizione l’Emirato Islamico dell’Afghanistan.
Nei giorni scorsi all’Aeroporto di Kabul si è inoltre verificato uno spettacolare disastro logistico di rilievo internazionale che non è passato inosservato in America, e alcuni deputati del Congresso hanno chiesto addirittura le dimissioni di Biden per la gestione della ritirata dei soldati e del corpo diplomatico. Nonostante il Commander-In-Chief abbia ampiamente motivato ai suoi cittadini le ragioni di questa sua decisione, è dunque emerso l’interrogativo se l’emergenza possa aver danneggiato le chance di rielezione dei democratici alle prossime elezioni di metà mandato, previste nel 2022.
Mantenere la parola data
Innanzitutto, è necessario rivedere perché Biden ha insistito così tanto sul ritiro delle truppe USA dall’Afghanistan. Il suo orientamento sull’intervento americano è sempre stato mosso da un innato scetticismo: il 46esimo Presidente non ha mai lesinato critiche alle amministrazioni precedenti, perfino a quella di Barack Obama. “Sono il quarto presidente a presiedere durante questa guerra, due repubblicani e due democratici: non permetterò che ce ne sarà un quinto”, ha rimarcato più volte Biden sia in campagna elettorale che durante il suo mandato presidenziale.
Si tratta perciò di una decisione di principio, ma anche di un’opportunità politica. Secondo un sondaggio effettuato lo scorso aprile, il 69% degli elettori americani era favorevole al rientro delle truppe dall’Afghanistan: questo è un dato che, come dimostrano rilevazioni simili di Gallup, nel corso degli anni è sempre cresciuto costantemente.
In questo senso, anche l’impegno di Donald Trump per raggiungere questo risultato non può essere sottovalutato, avendo siglato nell’estate del 2020 un importante accordo con i talebani che avrebbe inevitabilmente portato all’abbandono del Paese. Joe Biden ha quindi scelto la continuità con il suo predecessore, che nel frattempo però ha puntualmente criticato l’attuale inquilino della Casa Bianca per come ha trattato la popolazione afgana e ne ha approfittato per cancellare dal suo sito un comunicato in cui rilanciava il famoso accordo che avrebbe completato il ritiro già a maggio 2021. Anche i repubblicani hanno rimosso dal sito ufficiale del Partito la scheda sull’accordo di Trump.
Il momento elettorale perfetto
Ritornando alla scelta di Biden, oltre alla popolarità del provvedimento c’è un altro punto a favore che si tende spesso a omettere. A soli 8 mesi dall’entrata in carica, questo è il periodo perfetto per un Presidente per approvare tutte le misure più impopolari. Non si tratta certo di una novità nei sistemi presidenziali o semipresidenziali, come dimostra la Francia, dove i primi due anni del quinquennio (una volta era un settennato) all’Eliseo sono quelli caratterizzati dai tentativi di riforma meno gettonati.
Alla base di questo ragionamento c’è un’idea abbastanza semplice: gli elettori hanno solitamente una memoria alquanto breve quando si tratta di politica, per le ragioni più disparate, dal non comprendere certi meccanismi alla percezione di come stia effettivamente governando il Paese chi si trova al potere quando poi si va a votare. Talvolta funziona, come avviene spesso negli Stati Uniti, ma altre volte il rischio di andare incontro a un gigantesco fallimento è reale e può soltanto creare problemi.
La scommessa di Biden sembrerebbe apparentemente questa e a supportare questa strategia sarebbero gli stessi elettori americani. Prima della pandemia, i temi (issues) più cari agli elettori erano la sanità, l’economia, il lavoro, l’immigrazione e il welfare. La politica estera, un tempo patata bollente della politica americana, latita ormai negli ultimi posti.
La tesi della supremazia dell’economia (e della gestione della pandemia) è suffragata anche da Larry Sabato, professore dell’Università della Virginia e autore di Sabato’s Crystal Ball, una delle più autorevoli newsletter che offre un’utilissima panoramica sulle elezioni americane: “Saranno la pandemia e l’economia a plasmare le elezioni, non l’Afghanistan” ha scritto lapidario Sabato su Twitter.
Pandemic and economy will shape the election, not Afghanistan.
— Larry Sabato (@LarrySabato) August 15, 2021
In effetti, è difficile pensare che la polemica sulla gestione del ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan duri fino alle prossime Midterm, se non altro perché non è deceduto nessun cittadino americano durante l’evacuazione e in questo momento negli Stati Uniti ci sono ancora migliaia di nuovi casi di coronavirus ogni giorno. Intanto, i candidati repubblicani al Senato e alla Camera in Georgia, uno degli Stati con la più alta concentrazione di basi e militari di stanza in diverse cittadine rurali, non hanno perso tempo e hanno cominciato ad attaccare Biden e i democratici.
I primi segnali negativi
La scala delle priorità elettorali è già perfettamente costituita in vista del prossimo appuntamento alle urne che rinnoverà i membri delle due Camere e potrebbe togliere o ampliare la maggioranza dei democratici, che attualmente controllano la Casa Bianca, la Camera dei Rappresentanti e il Senato. Un dato, tuttavia, potrebbe allarmare Joe Biden: il summenzionato 69% di elettori favorevoli al ritiro USA dall’Afghanistan è sceso drasticamente al 49%, secondo l’ultima rilevazione Politico/Morning Consult. Il crollo è trasversale, sia tra i repubblicani che tra i democratici.
L’istituto Trafalgar Group ha invece condotto un’indagine sull’approvazione delle operazioni militari in Afghanistan da parte del Presidente e i risultati sono nerissimi: il 69% è contrario a come sta amministrando l’emergenza, mentre solo il 23% è d’accordo. L’ultimo boccone amaro da ingoiare per Biden è la media dei sondaggi sul tasso d’approvazione generale, la cartina tornasole della popolarità del Presidente degli Stati Uniti, arrivata al minimo storico con il 44% di disapprovazione.
Numeri ancora lontani da quelli di Trump, il più impopolare di tutti i tempi nei sondaggi (perlomeno nell’arco di tutto il suo mandato), ma Joe Biden non starà sicuramente sorridendo, anzi starà sperando che l’insuccesso USA in Afghanistan si riveli soltanto un incidente di percorso che non ostacoli né la sua agenda legislativa, né le sue chance di rielezione, per cui è assolutamente prematuro fare qualsivoglia previsione. Se i democratici perderanno ad appena due anni dall’inizio di un nuovo ciclo vincente, l’analisi della sconfitta andrà fatta a prescindere dell’Afghanistan.
Un giro d’orizzonte abbastanza esaustivo sulla questione, con un buon equilibrio tra esposizione di dati e loro valutazione. Cosa non da poco in un panorama informativo contrassegnato più che altro dall’emotività e dai preconcetti ideologici.
Grazie