Più di un anno è passato dall’elezione di Joe Biden e la luna di miele con il nuovo Presidente sembra terminata: l’Election Night di quest’anno ha infatti regalato ai Democratici una doccia gelata, a testimonianza dei problemi di popolarità del Presidente e della sua agenda.
I numeri del calo
Che un Presidente perda popolarità nel corso dei suoi primi due anni di mandato è un evento comune, salvo casi eccezionali (come ad esempio George W. Bush, anche a causa del post-11 Settembre). Dopo l’insediamento ci sono sempre grandi speranze, ma a mano a mano che il tempo passa in una parte di elettorato si fa strada la constatazione della realtà, cioè del fatto che non è mai facile far avanzare l’agenda presidenziale al Congresso anche in presenza di una maggioranza parlamentare favorevole. Per questo motivo, una delle leggi non scritte della politica americana è che alle elezioni di midterm il partito del Presidente perda seggi, spesso perdendo la maggioranza in una o entrambe le camere. È stato così nel 2006, nel 2010, nel 2014, nel 2018 e chissà se sarà così anche nel 2022.
Un indizio significativo viene dal tasso di popolarità: se Trump non ha mai raggiunto una popolarità del 50%, il neo-eletto partiva da un 50-55% di approvazione circa, a fronte di un 35-36% di americani che si esprimeva contro. L’impressionante stabilità del tasso di approvazione di cui ha potuto godere Biden fino all’estate si è però rapidamente sgretolata: ad agosto 2021 si è assistito a un crollo verticale della popolarità, e secondo l’ultimo sondaggio Quinnipiac, il tasso di approvazione di Biden si attesterebbe al 38%, cifre simili all’era Trump. Altri istituti sondaggistici riportano risultati meno demoralizzanti per la Casa Bianca, ma ciò che salta all’occhio nell’osservazione della serie storica è la costanza della discesa.
Come si può osservare dai grafici, a fronte di una iniziale stabilità nel tasso di approvazione, si assiste prima a un aumento graduale del tasso di disapprovazione, in particolare, secondo Fivethirtyeight, tra gli elettori indipendenti, poi a un crollo estivo da cui il Presidente non si è ancora ripreso. Secondo l’ultimo sondaggio The Economist/YouGov, il 54% circa degli uomini bianchi disapprova fortemente l’operato di Biden. Lo stesso si può dire del 25% degli ispanici, un gruppo demografico con cui i Democratici avevano mostrato segni di cedimento durante le elezioni del 2020. Forse i dati peggiori per il presidente e il suo partito derivano dall’opinione degli indipendenti (non registrati come elettori di nessun partito): appena il 35% approva il lavoro del Presidente, con un 41% che disapprova fortemente.
Se non stupisce la disapprovazione degli abitanti nelle aree rurali (a quota 56%), Biden è in difficoltà anche nei sobborghi, che nell’ultima tornata elettorale sono stati decisivi: il 48% si dice scontento, contro un 40% di supporter. Il Presidente tiene con i liberal (80%) e i residenti in città (56%), mentre delude anche i giovani (38% approva, 44% disapprova), un elettorato spesso favorevole ai Democratici. Ma da dove deriva questa delusione?
Le motivazioni
Individuare una catena causale è sempre rischioso, ma un’osservazione della cronologia degli eventi può suggerire utili spunti nella lettura di questo fenomeno. Abbiamo di fronte quattro fattori potenzialmente influenti: la situazione pandemica, la crisi in Afghanistan, la difficoltà nelle negoziazioni della maxi-manovra su infrastrutture e spesa sociale e infine la situazione economica.
Il vero punto di non ritorno è stato ovviamente il caotico ritiro dall’Afghanistan. Le scene di caos, violenza, disorganizzazione e disperazione hanno sferrato un duro colpo a Biden, se non altro perché hanno toccato nel profondo l’orgoglio patriottico americano. A poco è servito ricordare che il ritiro era stato programmato dall’amministrazione Trump addirittura per maggio, dopo negoziazioni avute con gli stessi talebani che erano stati la causa di tante morti americane: la colpa va sempre a chi è in carica al momento dei fatti. La figuraccia mondiale subìta dagli Stati Uniti, proprio sotto la presidenza di chi aveva fatto campagna elettorale con la promessa di restaurare la leadership americana nel mondo, ha profondamente deluso la popolazione e incoraggiato le aspre critiche dei Repubblicani. Non solo: con la situazione in Afghanistan si è infranto quel senso di ‘normalità restaurata‘ dopo i caotici quattro anni trumpiani su cui Biden aveva fatto tanta campagna.
Sul fronte interno, questo tragico evento è avvenuto in contemporanea con la risalita dei casi di Coronavirus. Questo chiaramente non è direttamente imputabile a Biden, ma la demoralizzazione portata dal rendersi conto che l’incubo della pandemia non è passato, riportando un sentimento di incertezza dopo mesi di ottimismo e di una retorica del ‘siamo in fondo al tunnel’, ha portato a un generale pessimismo che si è riflettuto inevitabilmente sul Presidente. Il tasso di vaccinazione fermo sotto al 70% non aiuta a lasciarsi alle spalle l’ultimo anno e mezzo.
I Repubblicani hanno trovato pane per i loro denti anche nelle vicende successive: da un lato, il lentissimo processo di formulazione e approvazione del piano economico Build Back Better, che nelle promesse doveva includere ogni genere di spesa economica. L’opposizione dei due senatori Democratici Manchin e Sinema al pacchetto di spesa sociale ha mandato in stallo anche la manovra sulle infrastrutture, frutto di una straordinaria negoziazione bipartisan. I Democratici, infatti, avevano deciso di procedere con i due pacchetti – infrastrutture e spesa sociale – in tandem. Questo perché i progressisti alla Camera temevano che se avessero votato a favore del pacchetto infrastrutturale (troppo moderato ai loro occhi), il secondo non sarebbe stato votato dai moderati, e viceversa. I ritardi, le divisioni interne e la dimensione ridotta dei due pacchetti non restituiscono l’immagine di una leadership politica efficiente, e a subire ciò è soprattutto il Presidente, che vede restringersi il campo delle promises kept.
Dall’altro lato, nonostante un’economia in rinascita e una domanda di posti di lavoro superiore all’offerta, ci sono delle variabili economiche che stanno creando situazioni di incertezza nella popolazione. In primis la risalita dell’inflazione, che si trova a più del 6% su base annuale, più del triplo dell’obiettivo della Federal Reserve, e al punto più alto dal 1990. Questo è un trend mondiale, ed è sicuramente sintomo di un’economia in fase di boom, ma la sua vertiginosa crescita dall’oggi al domani desta preoccupazioni, oltre ad avere un effetto psicologico sui consumatori – i quali, è bene ricordarlo, vedono comunque gli stipendi in aumento. È chiaro però che se la situazione si protrarrà potrebbe venirsi a creare una situazione con inflazione e stipendi fuori controllo. Un altro fattore di preoccupazione, non legato solo all’ambito americano ma che ovviamente ha ricadute anche lì, è la problematica della supply chain che ancora funziona a singhiozzo. Tutto questo gioca a favore dei Repubblicani, ai quali è servita su un piatto d’argento la possibilità di criticare l’intera ideologia alla base delle nuove riforme portate avanti dai democratici: perché spendere altri trilioni di dollari dopo che le precedenti manovre di stimolo hanno portato un’inflazione drogata?
Gli effetti di questo calo di popolarità del Presidente sono evidenti nel tracollo subito dai Democratici lo scorso 2 novembre, quando hanno perso le elezioni per il governatore in Virginia e hanno vinto con margine strettissimo in New Jersey, uno stato tradizionalmente Dem. È stato questo il campanello d’allarme che ha portato all’approvazione del pacchetto di investimenti nelle infrastrutture nei giorni immediatamente successivi alle elezioni. Per quanto riguarda il pacchetto sulla spesa sociale, la bozza è stata riarricchita di alcune misure che erano state limate in modo da renderlo più popolare, secondo speranze dei Democratici. Non è però sicuro che queste misure adottate con il fervore dell’emergenza diano i loro frutti: ci vuole tempo perché le persone sperimentino gli effetti benefici di una riforma. L’esempio principe è l’Affordable Care Act (Obamacare), che ora è molto popolare ma che costò ai Democratici la maggioranza alla Camera nelle elezioni del 2010.
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