Sono molteplici le novità che l’avvento dei social media ha introdotto nella sfera politica, dalla parziale sostituzione dei media tradizionali nella “dieta mediatica” degli elettori fino alla trasformazione della comunicazione, nei suoi linguaggi e nelle sue modalità: tutti fattori che concorrono in modo ugualmente decisivo a determinare opportunità e rischi di una presenza sui social, anche per chi – come Mario Draghi – ricopre una carica importante come quella di Presidente del Consiglio.
Da una parte, quindi, c’è la necessità di utilizzare e presidiare piattaforme che, a tutti gli effetti, vanno considerate ormai alla stregua di veri e propri mezzi di informazione – secondo il Censis (2020) il 31,4% degli italiani usa Facebook per informarsi – e dall’altra, invece, c’è l’opportunità di uniformarsi ad una classe politica e ad un suo modo di fare comunicazione molto presente nelle arene social.
A questo proposito, possiamo considerare separatamente due dimensioni fra loro molto diverse della stessa figura politica, con stili e obiettivi differenti: Draghi in quanto rappresentante più alto delle istituzioni e Draghi in quanto potenziale figura politica – nell’accezione anglosassone di politics – di massima rilevanza.
Se al primo, quindi, tocca fare i conti con il dovere di informare i cittadini sulle decisioni del proprio Esecutivo, utilizzando i canali ritenuti più adeguati, al secondo spetterà, invece, decidere se e come investire il proprio capitale di reputazione e consenso. Dovrà scegliere, insomma, se servirsi delle trasformazioni più recenti della comunicazione politica a suo vantaggio, per affermare e legittimare la propria identità di leader.
Draghi e i social: perché sì
La presenza online del Presidente del Consiglio non può dirsi sostituita dall’attività dei canali ufficiali di Palazzo Chigi. L’interpretazione formale e compassata di Draghi, infatti, non deve generare l’errore di far coincidere l’istituzione in sé con il suo più autorevole rappresentante. A testimonianza di ciò, basti pensare come Giuseppe Conte, alla fine del suo secondo governo, potesse contare, sia su Facebook che su Instagram, su un numero di follower quasi dieci volte superiore a quello dei corrispondenti profili istituzionali.
Al fine di intercettare – specialmente nei periodi di emergenza – quella porzione di pubblico che utilizza soltanto i social per informarsi, i soli profili di Palazzo Chigi non possono essere considerati sufficienti, e dotare perciò il Premier di account personali potrebbe rappresentare una soluzione opportuna. D’altra parte, presidiare i social con la figura di Draghi rappresenterebbe anche un efficace tentativo di sottrarre a leader e forze politiche narrazioni faziose e propagandistiche circa l’azione di governo.
Una chiara opportunità è quindi in prima battuta rappresentata dalla figura di garanzia che, anche sui social, Draghi si troverebbe ad interpretare, riempiendo quei silenzi che l’esecutivo ha manifestato in numerose occasioni a seguito dell’approvazione di provvedimenti mediaticamente rilevanti.
Sarebbe per questo estremamente utile, per il Governo, affermare nel dibattito pubblico sui social una voce ben più forte e autorevole di quella flebile e comprensibilmente austera di Palazzo Chigi. E la sua percezione, sempre equamente distante da ogni partito, permetterebbe a Draghi di indossare i panni imparziali e rassicuranti del politico che usa i social solo per «comunicare quando ha fatto qualcosa» (per usare le sue stesse parole) e non per proprio tornaconto elettorale.
Insomma, si tratterebbe di una scelta strategica capace di esaltare quelli che oggi sembrano essere i suoi più evidenti punti di forza: la terzietà rispetto al panorama politico attuale e la solida reputazione che i cittadini gli riconoscono.
Tale necessità assume ancor più rilevanza se contestualizzata nel periodo di emergenza sanitaria che il Paese rischia di tornare a vivere nelle prossime settimane: durante una crisi, infatti, il racconto rischia di assumere toni la cui drammatizzazione – secondo Noelle-Neumann – cresce in modo direttamente proporzionale rispetto al silenzio – seppur solo online – della leadership. Il capo di un governo, mantenendo un basso profilo, interverrebbe quindi in un contesto già plasmato dal racconto dei media, abdicando al suo ruolo di guida e lasciando ad altri attori politici la ghiotta e pericolosa opportunità di proporsi come narratori della crisi.
Draghi e i social: perché no
Del consenso non si interessa solo chi è a capo di un partito, né solo chi misura il proprio gradimento in attesa di presentarsi alle elezioni. Il consenso è anche e soprattutto elemento fondante di tutti i regimi democratici, i quali basano la propria legittimità sull’autorizzazione che i cittadini riconoscono a chi esercita su di loro il potere (government by consent, direbbero gli inglesi): anche Draghi, quindi, pur non avendo mai manifestato – almeno finora – l’intenzione di sottoporsi al giudizio elettorale, è naturalmente impegnato a mantenere elevato il proprio consenso.
A questo proposito, i social media negli ultimi anni hanno rappresentato più di ogni altro luogo, online e offline, un’arena democratica – nel senso di accessibile a tutti – entro cui ciascun politico ha potuto lentamente costruire il proprio consenso, adeguando gli stilemi della politica pop ai nuovi strumenti digitali.
Lo spazio odierno del dibattito pubblico ha visto i social media assumere sempre maggiore rilevanza, anche e soprattutto nella costruzione e legittimazione di molte leadership. Al contrario dello stile di leadership di Draghi, però, i protagonisti della politica pop sono veri e propri leader celebrità, che generano consenso intercettando target di elettori meno interessati alle dinamiche strettamente politiche.
Tale azione si concretizza attraverso strategie comunicative che online hanno trovato la propria naturale dimensione, investendo sulla narrazione della vita privata e sulla rappresentazione delle pratiche quotidiane, utili per costruire una propria identità anche attraverso i piccoli gesti.
Memori tuttavia di fallimentari tentativi degli anni passati – l’incontro fra Mario Monti e il cagnolino Empy è probabilmente l’episodio più noto –, si può affermare con relativa certezza che l’adesione di Draghi a queste modalità di racconto della politica rappresenterebbe una pericolosa minaccia per la sua credibilità. D’altronde, secondo diversi commentatori, la campagna elettorale del 2013 di Monti si infranse proprio su quel tentativo di spettacolarizzazione che colse di sorpresa chi, invece, sperava in una comunicazione più sobria e maggiormente incentrata sui fatti.
Una terza via
Ma se gli strumenti social si rivelano, per i leader di oggi, principalmente utili per consentire loro di mostrare il proprio lato autentico e privato, quanto può essere pericoloso per Draghi adoperarli e, contestualmente, rinunciare a un’operazione di disintermediazione ormai abituale per chi si trasferisce sui social?
Il fatto che l’equazione tra popolarità e consenso non sia necessariamente esatta porta a chiedersi se la distinzione manichea fra l’adattamento a certi linguaggi pop online e la rinuncia totale alla presenza sulle piattaforme social non possa poi risolversi in una terza strada, che rispetti e valorizzi personaggi politici dotati di solida credibilità ma scarsa propensione alla celebrity politics.
Esserci, sì, ma coerentemente con quell’immagine – formale ed istituzionale – che si è ormai sedimentata nella mente del pubblico, limitandosi semplicemente ad estendere, anche online, stile e linguaggio di una comunicazione a cui ormai anche gli italiani si stanno abituando.
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